L’incubo della guerra civile ritorna a popolare i sogni dei libanesi. Dal 1975 al 1990 il Paese dei Cedri cadde in una spirale bellica che vedeva tra loro opposte le varie componenti politiche e religiose presenti in Libano. Ora, in un contesto economico e politico già particolarmente instabile, una ripetizione del conflitto di allora è, di fatto, già in corso, con un aumento sempre più preoccupante della tensione tra cristiano-maroniti e sciiti.
Tutto nasce dall’avvio delle indagini per individuare i responsabili del drammatico incidente che ha colpito il porto di Beirut nell’agosto del 2020, quando un deposito di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, lì dal 2013 e in questo lasso di tempo mai controllato, esplodeva provocando 218 morti, circa settemila feriti e oltre trecentomila sfollati. Nel mirino degli sciiti è il giovane e coraggioso giudice di origine cristiana, Tarek Bitar, accusato di voler politicizzare l’inchiesta.
Già la scorsa settimana, secondo quanto ha riportato il quotidiano locale “aal-Arabbv al-Jadeed”, le due formazioni sciite vicine alla Siria e all’Iran – Amal e Hezbollah, guidate in piazza dal presidente del parlamento Nabih Berri – si sono date appuntamento alla rotonda Tayyoune, nella parte sud della città, per organizzare il corteo con apparenti intenzioni pacifiche presto smentite dai fatti. Secondo alcuni osservatori, i manifestanti di Amal, con il proprio simbolo stampato su magliette e giacche, avrebbero sparato colpi di kalashnikov, che sono stati uditi in tutta la zona vicina di Badaro e Tayyoune, come risposta agli attacchi di alcuni cecchini situati sui tetti dei palazzi circostanti, che hanno aperto il fuoco contro i manifestanti provocando, secondo la Croce Rossa libanese, la morte di sette persone e trenta feriti.
I funerali delle vittime sono stati, come da prassi, un ulteriore motivo di protesta e mobilitazione. Immediato lo scambio di accuse: i movimenti sciiti Amal e Hezbollah, i cui nomi significano rispettivamente “speranza” e “partito di dio”, hanno puntato l’indice contro il partito cristiano-maronita delle Forze libanesi, accusato di voler gettare benzina sul fuoco della protesta.
Dall’altro lato, le Forze libanesi hanno respinto le accuse, puntando invece l’indice contro le mire espansionistiche di Hezbollah, in particolare nel sud del Paese da tempo controllato dalla formazione sciita. Per arginare questa spirale di violenza, i militari dell’esercito libanese si sono dispiegati, non senza difficoltà, nell’area degli scontri, tra i quartieri di Ayn Remmane, a maggioranza cristiana, e l’islamico Shiyah, entrambi a ridosso della rotonda Tayyoune.
Va sottolineato che questa suddivisione politica e religiosa della città deve essere assolutamente rispettata dalle parti in causa, soprattutto in momenti di particolare tensione come quella di questi giorni. Insomma, nessuno deve superare quella “linea verde” che già nel precedente conflitto divideva in due la città, pena sparatorie e uccisioni. Chi conduce le danze della violenza di questi giorni è senza dubbio Hezbollah. Un aumento di una mai sopita aggressività finalizzata a distrarre l’attenzione dal calo di popolarità del partito capeggiato da Hassan Nasrallah.
La ragione va ricercata nella drammatica situazione del Paese che vede il “partito di dio” certamente tra i responsabili dell’aumento del debito pubblico al 170% e dello svuotamento dei depositi bancari, causa ruberie e corruzione, mentre prima superavano di tre volte il prodotto interno lordo. E lo scontro con il giudice è un altro tassello di questa linea bellicosa.
Bitar aveva già richiesto l’arresto di due ex ministri accusati di negligenza: Ali Hasan Khalil, già alla testa del ministero delle Finanze, e Ghazi Zeaiter, esponente di Amal, già alla guida di diversi dicasteri. I due, che hanno disertato la convocazione, hanno fatto richiesta di ricusazione determinando così la sospensione dell’inchiesta. Alcune settimane fa era stato un altro ex ministro, Nohad Mashnuq, a fare una richiesta del genere, ma quella volta la Corte d’appello di Beirut aveva respinto la ricusazione, facendo così riprendere, sia pure per poche ore, il lavoro degli inquirenti. Tutti i politici sotto inchiesta sono accusati di “omicidio colposo, mancanze e incuria”.
Finora sono state accusate e arrestate solo venticinque persone, tra i lavoratori e dirigenti dell’attività portuale, tredici delle quali sono state rilasciate. Insomma solo personale di livello medio-basso. Scontata la risposta del presidente Michel Aoun, che si opporrà “a qualsiasi tentativo di prendere il Libano in ostaggio, sulla base di interessi personali e si proverà a evitare scene simili in futuro”.
Com’è noto la situazione nel Paese mediorientale è sotto l’attenzione nel mondo, in particolare negli Stati Uniti, vista la delicatezza di quell’area geografica. “Ci uniamo alle autorità libanesi – ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price – in un appello alla calma e a un allentamento delle tensioni”. Inevitabili le critiche a Hezbollah, incluso dagli Stati Uniti nella lista delle organizzazioni terroristiche, senza tuttavia ritenerlo responsabile unico di quello che sta accadendo. Particolare preoccupazione è stata riservata all’autonomia della magistratura. “I giudici devono essere liberi dalla violenza. Devono essere liberi dalle minacce e dalle intimidazioni, compresa quella di Hezbollah”, hanno ribadito le autorità statunitensi.
A questo scenario preoccupante, si è affiancato ieri un ritorno imponente della protesta dei libanesi, soprattutto i più giovani che non hanno vissuto gli anni della guerra civile, contro la corruzione e l’inadeguatezza della classe politica. Una ripresa insomma della “saura” (“rivoluzione” in arabo), poco compresa dagli anziani, che già due anni fa scosse il Libano, ma con una modalità assolutamente non violenta, cosa inedita nell’inferno libanese e al di fuori degli schieramenti politico-religiosi. L’altro grosso punto interrogativo è, a questo punto, come arriverà il Libano alle prossime elezioni politiche anticipate dal mese di maggio al prossimo 27 marzo.
Le ragioni dello spostamento in avanti del voto sono presto spiegate: l’attuale legge elettorale del 2017 prevede, in occasione delle prossime legislative, l’elezione di sei deputati su 128 da parte dei cittadini che vivono all’estero. Ma questa possibilità si basa su un provvedimento generico, che dovrebbe essere accompagnato da una serie di chiarimenti da parte dei legislatori che tardano ad arrivare.
Allo stato attuale delle cose, i libanesi che vivono all’estero non voterebbero, mentre per il governo prima si vota e meglio è. Anche e soprattutto perché tra gli immigrati libanesi, che sostengono con le rimesse i loro parenti a casa, la maggior parte è vicina ai protagonisti della rivolta. Evitare, dunque, che questi abbiano una rappresentanza in parlamento sembra essere un’altra preoccupazione di una classe politica corrotta e inefficiente, incapace, tra l’altro, di realizzare quelle riforme politiche ed economiche richieste dalle istituzioni economiche internazionali come condizione per ricevere dei finanziamenti.
Insomma, tra rischi di guerra da un lato, e malcontento popolare dall’altro, questo piccolo Paese che ospita un milione e mezzo di immigrati su una popolazione di poco più di quattro milioni, rischia, come quarant’anni fa, di entrare in un altro drammatico tunnel.