Il bilancio ancora non definitivo dei terribili scontri avvenuti nel carcere Penitenciaria del Litoral a Guayaquil, la città più popolosa dell’Ecuador, durante le giornate del 28 e 29 settembre, è arrivato a contare cento feriti e centodiciotto morti in circostanze di inaudita violenza che fanno, di questo massacro carcerario, il più feroce della storia contemporanea del Sudamerica. Tra le vittime, anche il figlio di una cittadina ecuadoriana residente in Italia: un uomo bruciato vivo che si trovava in uno dei padiglioni considerato tra i più tranquilli, in quanto destinato ai membri della Chiesa evangelica e a coloro che stanno per essere rimessi in libertà. Ma non si tratta di una rivolta dei carcerati, com’è accaduto a febbraio e a giugno di questo stesso anno, bensì di un regolamento interno tra bande criminali sfociato in una vera e propria guerriglia, con scene che apparirebbero eccessivamente crude persino in un film di Tarantino.
Alle nove di mattina di martedì 28, secondo le ricostruzioni, si sono sentiti i primi spari provenienti dal recinto del carcere, che consta di dodici padiglioni, e per tutta la mattina la situazione è andata peggiorando, con la polizia che ha faticato a rispondere a un’azione tanto grave e, a quanto pare, inaspettata. Dal padiglione 8, in mano alla fazione dei Tiguerones, e dal padiglione 9, controllato dalla banda dei Lobos, gruppi armati di entrambe le gang hanno rotto una recinzione di contenimento e fatto saltare con l’esplosivo i muri di cemento, per irrompere nel padiglione 5, dominio della banda dei Fatales, che sono stati massacrati a sangue freddo insieme con detenuti estranei alla faida.
Le forze dell’ordine, composte anche dai servizi speciali, nonostante i proclami diffusi dai mezzi d’informazione, non sono riuscite a fermare la follia scoppiata nel carcere che, ancora nelle prime ore del mattino del 29 settembre, era teatro di spari e incendi. Dai padiglioni 3 e 6, occupati dagli Águilas, iniziava la controffensiva per riprendere il controllo del vicino padiglione 5, con l’attacco agli invasori, sino a quel momento vincenti, fatti letteralmente a pezzi. Solo alla fine di questa seconda carneficina, nel primo pomeriggio, la polizia è riuscita a entrare nell’edificio devastato, trovandosi davanti a uno scenario apocalittico. Almeno settanta corpi giacevano in un lago di sangue, tutti appartenenti alla gang dei Choreros e a quella del cartello Nueva Generación, entrambe in contatto con organizzazioni criminali messicane tra loro rivali.
La “macelleria ecuadoriana” ha riacceso i riflettori sul microcosmo delle carceri o “centri di privazione della libertà”, come sono chiamati con una neolingua “politicamente corretta”, tanto equilibrata quanto ipocrita. Scontare una pena significa oggi, in molti contesti, entrare in un luogo in cui non solo si è privati della libertà ma si esce dalla protezione della legge e, da cittadini, si diventa pedine soggette alle regole criminali di una sorta di Stato parallelo che gestisce, oltre agli affari interni del carcere, una vera e propria “politica estera”.
Da dove sono venuti gli esplosivi e le armi? Com’è possibile organizzare una battaglia di tali dimensioni senza coinvolgere le guardie carcerarie? Sono queste le domande rivolte al governo dai familiari dei prigionieri, i quali già dal primo pomeriggio del 28 si sono radunati all’esterno dell’istituto di pena, in ansia per la mancanza di comunicazione con i propri cari all’interno del carcere. Il precipitare della situazione ha gettato nella disperazione i parenti delle vittime, persone spesso molto giovani che stavano per essere rimesse in libertà dopo aver scontato pene minori ed estranee alla lotta tra le bande rivali. Nel prendere provvedimenti urgenti, l’esecutivo di destra liberale guidato da Guillermo Lasso, che ha dichiarato lo stato di emergenza carcerario, ha inviato un sostegno anche psicologico ai familiari delle vittime che presidiavano l’esterno del penitenziario.
Strano mese di settembre per il presidente dell’Ecuador, iniziato con il conferimento di un dottorato honoris causa all’Università San Francisco di Quito e l’omaggio del battesimo di una nuova specie di orchidea: la Lela Catleya Cirtophylum Guillermo Lasso, appunto.I successi della campagna di vaccinazione – che ha avuto una forte accelerazione durante l’estate, portando la percentuale della popolazione vaccinata al 57,44% – sembravano coronare la luna di miele tra il leader e il paese, perfettamente in linea con la narrazione a tinte rosa della propaganda di governo, particolarmente attiva sulle piattaforme social. Ma – oltre allo scempio nel carcere di Guayaquil – altri due eventi hanno contribuito a smorzare l’ottimismo lassista: il blocco del progetto di legge Creando Oportunidades e l’uscita del nome del presidente, ex banchiere, nei cosiddetti Pandora Papers.
Se questi ultimi sembrano riferirsi a una condizione precedente alla candidatura di Lasso, che sostiene di essersi completamente liberato da qualsiasi tipo di relazione con le varie società e conti nei paradisi fiscali a lui attribuiti nei documenti, è lo stop alla proposta di legge, perno del programma di governo, a mettere in grande difficoltà l’esecutivo. Il blocco del provvedimento di iper-liberalizzazione del mondo del lavoro, denominato Creando Oportunidades, giudicato dagli organi di controllo non aderente ai principi costituzionali, potrebbe impantanare – a nemmeno sei mesi dall’elezione – le possibilità di azione del governo Lasso, conducendolo verso una situazione di stallo.