Non è di poco momento ciò che si profila con l’accordo racchiuso nell’acronimo Aukus (Australia, United Kingdom, United States). Mediante la fornitura all’Australia di sottomarini a propulsione nucleare, una nuova Nato va schierandosi tra l’Oceano pacifico e indiano, a un tiro di schioppo dalla Cina. Si può nutrire la più spiccata antipatia per il regime cinese – questo strano pasticcio storico capitalistico-comunista – e riconoscere, tuttavia, che in politica internazionale esso non ha manifestato la minima intenzione bellicosa, nonostante non abbia rinunciato alle rivendicazioni su Taiwan e alcune isolette minori controllate dal Giappone.
È quindi solo una mossa da Paesi che cercano scompostamente di sottrarsi al loro declino, quella messa in campo da quest’Occidente ristrettamente anglosassone formato dagli Stati Uniti, da un Regno Unito ripreso, dopo la Brexit, dalla tradizionale subalternità filoamericana e dal suo avamposto nell’indopacifico facente parte del Commonwealth (gli australiani sono tuttora sudditi di sua maestà britannica). Per quanto riguarda gli Stati Uniti, si potrebbe dire: appena chiusa una bestialità – con l’ammissione ufficiale dell’assassinio di dieci civili, tra cui sette bambini, scambiati per terroristi in Afghanistan e colpiti con un drone il 29 agosto scorso –, se ne intraprende un’altra.
Come ha dichiarato il leader dei verdi australiani, Adam Bandt: “Ciò ci rende meno sicuri, aumenta il rischio di conflitto dalle nostre parti, e ci mette in prima linea di tiro”; mentre non si può che deplorare l’assenso dei laburisti, pure all’opposizione del governo di Canberra. Avere dei sottomarini a propulsione nucleare – equipaggiati con armi convenzionali, i famigerati missili Tomahawk – vuol dire avere delle potenziali Chernobyl naviganti tra le coste dell’Oceania, lontane soltanto da quelle della Nuova Zelanda, la cui premier laburista, Jacinda Ardern, ha saggiamente dichiarato: “Nessuna imbarcazione parzialmente o totalmente alimentata dall’energia nucleare può entrare nelle nostre acque”.
Sono la possibile proliferazione nucleare che innesca nella zona, e soprattutto l’escalation militare spropositata nei confronti della Cina, a prospettarsi come l’inizio di una nuova guerra fredda (su cui si veda il nostro articolo del 17 giugno). Per i cinesi Biden è ormai un “capobanda” non diverso da Trump, una minaccia per la pace. Gli europei, lasciati all’oscuro di tutto, possono solo rallegrarsi del fatto che gli scenari di guerra prossimi venturi, anziché contro la Russia, sembrano definitivamente delinearsi nell’indopacifico, cioè lontano da casa.
Però l’ira del governo francese nei confronti di Washington e Canberra – con cui Parigi aveva da poco concluso un ricco contratto per la fornitura di sommergibili a propulsione diesel, diventato ora carta straccia – avrà delle conseguenze che si sono già viste con il richiamo degli ambasciatori negli Stati Uniti e in Australia. Certo c’interessa poco la delusione da trafficanti d’armi di Macron e del suo ministro degli Esteri, l’ex socialista Le Drian; ma le conseguenze politiche, anche nel senso di un impulso ulteriore verso la costituzione di quell’autonoma forza militare europea, di cui ha parlato la presidente della Commissione von der Leyen, sono potenzialmente notevoli.
L’Europa potrebbe svolgere sempre di più un ruolo di neutralità attiva nei rapporti con la Cina. Si sa che i cinesi, con il loro sviluppo economico travolgente, sono interessati più ai commerci che alle controversie di ordine militare. La sponda fornita da Germania e Francia, oltre che da Italia e Spagna, può quindi diventare decisiva nelle relazioni internazionali contemporanee. Ma l’Europa saprà essere, per una volta, all’altezza della partita che si profila, che non la vedrà campo privilegiato della guerra fredda come nel secolo scorso, quanto piuttosto possibile protagonista di una politica che miri a mitigarne i venti?