Solo tre settimane e più di mille Comuni dovranno eleggere il loro sindaco: tra questi, anche quelli di alcune grandi città, Milano, Torino, Bologna, Napoli, Trieste, e soprattutto Roma dove la partita si profila decisiva per il futuro della capitale che, dopo la stagione delle giunte “rosse”, ha conosciuto un lento e progressivo declino. Le condizioni precarie dell’Urbe (per adoperare un eufemismo) sono sotto gli occhi di tutti, e ora che alla crisi ambientale, sociale ed economica, si è aggiunta quella sanitaria, la fragilità di Roma appare in modo ancora più netto. Cosa fare per affrontare le emergenze del dopo pandemia? Quali progetti mettere in campo? Gli interrogativi sono tanti, e non tutti, in fin dei conti, così nuovi.
Le sfide continuano a essere quelle della salvaguardia ambientale, del miglioramento della salubrità urbana, della lotta alle discriminazioni e alle diseguaglianze, e ancora l’incremento delle attrezzature e dei servizi, l’attenzione alle periferie e il superamento delle differenze con il centro della città, la questione dei rifiuti e la cura del verde urbano. A cambiare, in tempi di post-pandemia e di riconversione ecologica, è forse l’approccio che a parole si presenta un po’ meno aggressivamente smart e un po’ più da understatement. Niente progetti roboanti ma proposte concrete, come la città dei quindici minuti, il modello teorizzato dal ricercatore franco-colombiano Carlos Moreno, con cui la sindaca Anne Hidalgo (da ieri anche candidata all’Eliseo per le elezioni presidenziali nel 2022) ha ottenuto nel 2020 il secondo mandato a Parigi, promettendo di convertire la città in una metropoli sempre più ecologica e a misura di abitante.
Il programma è molto semplice: sviluppare una rete di percorsi pedonali e ciclabili per poter raggiungere i servizi pubblici nel giro di un quarto d’ora, ottimizzando così i tempi degli spostamenti e consentendo di conseguenza di poter dedicare il tempo guadagnato alla vita sociale e al tempo libero. La prossimità è il punto di forza della città dei quindici minuti, che significa vicinanza tra i luoghi della vita quotidiana e anche loro facile raggiungibilità. A fare la differenza, è la riduzione dei tempi dello spostamento senza la preclusione del piacere della vita metropolitana, di quel famoso gusto per l’effimero e il transitorio di baudelairiana memoria che sarebbe il bello dell’abitare in città, dove tutto è in movimento e dove, in astratto, si può scegliere all’interno di un’offerta ampia di cose da fare.
Senza ombra di dubbio la città dei quindici minuti è un’immagine che va incontro al desiderio di tutti coloro che la abitano: avere negozi, scuole, università, ospedali, cinema, teatri, palestre, parchi, giardini a portata di mano e facilmente accessibili, ovunque si abiti, in periferia o in centro. Per quanto metropolitani e nomadi si possa essere, l’idea di facilities, come si chiamano in inglese, sotto casa o a poca distanza, piace a tutti.
Non è dunque un caso che questa ideale città a misura d’uomo, in cui la strada torna a essere al centro della vitalità dell’abitare urbano e “[…] dove ci si conosce, dove ci si incontra, dove si vive insieme e dove ci si prende cura dell’ambiente, del bene comune e degli altri” (Moreno, La ville du quart d’heure), sia entrata nei programmi elettorali dei candidati sindaci che propongono di superare i mali dei loro Comuni ascoltando le voci dei territori e della società civile, per colmare le differenze tra centro e periferia e ampliare così la sfera del “diritto alla città”.
La città dei quindici minuti, d’altro canto,è senza dubbio una visione in linea con lo spirito dei tempi, che combina bene la domanda della civitas, cioè del vivere sociale, con la conversione ecologica della polis, anche se, a essere onesti, la proposta non è nuovissima. La città di prossimità (in linguaggio tecnico chiamata anche unità di vicinato) è una novecentesca chimera degli urbanisti e degli architetti, che già negli anni Sessanta, quando il mito della modernizzazione aveva cominciato a mostrare le sue crepe e ci si era trovati a fare i conti con la monotonia e il malfunzionamento delle periferie, avevano rivalutato il potere della strada e del quartiere nella loro funzione di collanti sociali. Le critiche alla disumanità delle periferie, dove la gente viveva segregata in quartieri privi di servizi, hanno sempre mirato a una correzione delle disfunzionalità, con un incremento delle infrastrutture e dei collegamenti, per ripristinare uno spirito di quartiere nelle grandi città. E anche se oggi avrebbe bisogno di una profonda revisione, la legge sugli standard edilizi – il decreto ministeriale 1444 del 1968 – fu all’epoca una conquista dell’urbanistica. I progetti per conciliare vita metropolitana e vita di quartiere sono stati numerosi, la maggior parte focalizzati sul ruolo della strada vista non più alla maniera di Le Corbusier come una rue corridor da percorrere, con l’auto e in velocità, ma come un luogo vitale di collegamento e di incontro. È interessante come oggi ci sia un fiorire di riscoperte di quanti hanno assunto posizioni critiche nei riguardi del dogma funzionalista novecentesco (da Alison e Peter Smithson fino a Giancarlo de Carlo).
Il punto dirimente non è dunque la teoria – ma la prassi. Quali strumenti e quali azioni vanno previsti per rendere effettiva la città dei quindici minuti? Su questo fronte, Parigi è un riferimento concreto anche se non è chiaro come Roma possa mutuare la lezione di Parigi. La città dei quindici minuti che Hidalgo ha portato in campagna elettorale e sta realizzando con grande tenacia – modificando la viabilità, incrementando i trasporti pubblici, riducendo i parcheggi delle auto, aumentando i corridoi ecologici – ha potuto contare su un importante numero di iniziative: la riforma della mobilità con i nuovi servizi di Velib’ e Autolib’, avviata dal suo predecessore Bertand Delanoë fin dal 2006, e il progetto del Grand Paris, iniziato ormai un ventennio fa e passato per accordi politici e amministrativi tra Regione Ile de France e Comune di Parigi, attraverso una consultazione progettuale di dieci équipe di architetti e urbanisti, con geografi, sociologi, paesaggisti, che hanno gettato le basi della cosiddetta città post-Kyoto della conversione ecologica.
In breve, per realizzare la città dei quindici minuti non basta, come si è detto, ampliare e pavimentare i marciapiedi, spostare i parcheggi, tracciare qualche pista ciclabile, ridurre il rischio che alberi o rami cadano sulla testa dei passanti e sulle automobili. Sicuramente la città dei quindici minuti è l’insieme di tutte queste cose, ma consiste soprattutto in un progetto e in una visione urbana che implichino azioni di governo, in cui i processi top down (cioè i programmi urbanistici e le decisioni politiche) e bottom up (ossia la partecipazione attiva della cittadinanza in forma di associazioni, comitati di quartiere, laboratori) si incontrino e si confrontino. Si tratta di un cambiamento di prospettiva che, se per un verso richiede un lavoro politico nei territori al fine di tessere la trama di una diversa organizzazione e di un nuovo accordo fiduciario, dall’altro necessita di una cultura sempre più condivisa del vivere urbano.