Le dichiarazioni del ministro Cingolani sugli ambientalisti e sul nucleare “sicuro” hanno innescato una serie di polemiche relative al suo modo molto poco istituzionale di trattare chi non la pensa come lui, e hanno anche risvegliato la lobby pro-nucleare. Come ambientalista – non so se chic, ma certamente radicale – ho il vizio di verificare le affermazioni di coloro che “danno i numeri”. I reattori di quarta generazione, a cui il ministro ha fatto riferimento, non sono altro che i reattori veloci di cui si parla da quarant’anni. Peccato che il Superphénix francese, reattore veloce prototipo, cui partecipavano varie aziende italiane, malgrado il suo nome, non sia risorto dalle ceneri cui lo hanno condannato gli incidenti di funzionamento, tanto che la Francia ha abbandonato nel 2019 la ricerca nel settore.
Un ministro della Transizione ecologica dovrebbe porsi il problema dei tempi necessari affinché una tecnologia “quasi matura” riesca a maturare pienamente e a incidere sulla produzione di energia. Una centrale nucleare tradizionale richiederebbe almeno sette anni per la costruzione, mentre nulla sappiamo dei nuovi sistemi. I residui radioattivi, poi, non saranno mai “pochi chili”, dato che i componenti stessi della centrale divengono radioattivi, come sa qualsiasi fisico. Forse il ministro pensa che le difficoltà ventennali per lo smantellamento delle centrali dismesse, e per la realizzazione di un sito nazionale per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, siano imputabili alla scarsa professionalità di Sogin, la società dello Stato italiano responsabile della gestione degli impianti nucleari?
Per non parlare poi della fusione nucleare, mitico obiettivo perseguito da anni e di cui il progetto Iter, del costo di trenta miliardi di euro, dovrebbe dimostrare la fattibilità: doveva essere in funzione nel 2010 ed è ancora in costruzione. Un fisico come Cingolani, inoltre, dovrebbe conoscere la termodinamica di base e sapere che usare “l’energia delle stelle” per produrre acqua calda da cui ottenere energia elettrica è una fonte di inquinamento termico folle e una incongruenza scientifica, come mostrato già da Carnot nel 1824.
Le fonti rinnovabili si inseriscono nel flusso di energia solare e non provocano ulteriori emissioni termiche. È vero, come sostiene Paolo Scaroni su “Repubblica”, che le rinnovabili richiedono forti investimenti, ma questo è vero anche per tutto il nucleare. In particolare, per la fusione termonucleare ritengo che sia ancora attuale l’articolo di Valter Cirillo del 1994 (in “Le Scienze”, n. 316, p. 5): “Se qualcuno proponesse oggi all’Unione europea investimenti di 1600 miliardi di lire [circa un miliardo di euro attuali] all’anno per sessant’anni in cambio di una probabile fonte di energia illimitata […], verrebbe semplicemente ignorato”. I costi del nucleare non hanno mai considerato fino in fondo il problema dello smaltimento. Definire verde l’industria nucleare perché emetterebbe poca CO2 è semplicemente ipocrita, perché si guarda solo al combustibile; non si considerano le emissioni connesse alla costruzione della centrale, al trattamento e smaltimento dei rifiuti, all’inquinamento termico.
Non sono poi gli ambientalisti a far chiudere le fabbriche di automobili, come mostrano i casi Gkn in Toscana e il rallentamento di produzione di Stellantis (ex Fiat) nelle fabbriche italiane, a causa della carenza di microchip. Compito di un ministro dovrebbe essere spingere lo sviluppo di filiere nel settore delle rinnovabili, dei sistemi di immagazzinaggio e conversione dell’energia (pile a combustibile) oltre che dell’elettronica, per non dipendere completamente dall’Asia e dalla Cina. L’uso efficiente e razionale (termodinamicamente) dell’energia è il solo modo di affrontare la transizione, per ridurre l’impatto sulla biosfera delle attività umane, ma per questo serve diffondere la conoscenza scientifica e tecnologica esistente. Molto sappiamo e poco applichiamo. Certo, la ricerca può fornire nuove soluzioni, ma, come si è visto per i vaccini anti-Covid, non basta realizzarli rapidamente, bisogna anche velocemente adoperarli.