La rivoluzione tunisina dei gelsomini rischia di appassire. L’unica, tra le tante che scossero i Paesi arabi tra l’inverno e la primavera del 2011, che avesse prodotto un sistema politico democratico ora è a rischio. Quel processo – nato dalla disperata protesta del 17 dicembre 2010, quando un giovane ambulante, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco a Sidi Bouzid dopo l’annuncio delle autorità di revocargli la licenza – mise fine a vent’anni di dittatura di Zine El Abidine Ben Ali. Ma le lancette dell’orologio rischiano di tornare indietro: il 25 luglio scorso il presidente Kaïs Saïed ha assunto i pieni poteri, ha sospeso il parlamento, licenziato il premier Hichem Mechichi, silurato il ministro della Difesa e la ministra della Giustizia, fatto arrestare una decina di parlamentari. Misure che avrebbero dovuto essere revocate dopo trenta giorni, salvo essere invece prorogate fino a nuovo ordine, mantenendo anche la revoca dell’immunità dei parlamentari che, tradotto, significa mano libera del presidente nei confronti della libertà degli stessi. Saïed, inoltre, non nasconde l’intenzione di cambiare la Costituzione, progettando una non meglio identificata forma di democrazia alternativa a quella parlamentare. Del resto non potrebbe essere definito esattamente un leader illuminato, almeno su alcuni punti importanti riguardanti la parità tra uomo e donna.
Ma come è stata possibile questa svolta autoritaria, sia pure giustificata dall’articolo 80 della Costituzione che prevederebbe – il condizionale è d’obbligo visti i limiti posti all’operato del parlamento e della Corte costituzionale – un intervento del capo dello Stato qualora fosse messa a rischio la sicurezza del Paese? Anzitutto il governo – che vede come prima forza politica il partito islamico moderato Ennahda, presieduto dal presidente del parlamento, Rashid Ghannushi, con il sostegno dell’alleato Qalb Tounes – era da tempo sotto accusa perché considerato corrotto e inefficiente. Al punto che molti tunisini sono andati in piazza per festeggiare quello che può essere definito un colpo di Stato, che molti però non considerano tale, anche perché la Costituzione non è stata sospesa e l’esercito non è sceso per le strade per mantenere l’ordine e mettere in atto azioni repressive. Lo stesso presidente si è unito alla folla per festeggiare il suo operato.
Di fronte a questo quadro l’ex premier, arresosi all’evidenza, si è detto pronto a trasmettere le proprie responsabilità “alla persona che sarà nominata dal presidente della Repubblica”. Parlano chiaro le cifre frutto di un recente e autonomo sondaggio: il 94,9% dei tunisini (l’87% in un’indagine precedente) è favorevole alle decisioni di Saïed del 25 luglio scorso, e il 91,9% lo voterebbe in caso di nuove elezioni presidenziali. E poco importa alla popolazione che gli uffici di Al-Jazeera, emittente vicina a Ennahda, siano stati chiusi. Le priorità per i tunisini e le tunisine sembrano essere altre.
Il consenso è frutto di un andamento “post-rivoluzionario” caotico. In dieci anni si sono succeduti complessivamente dieci governi, con un aggravamento della situazione economico-sociale. Saïed ha promesso di risanare il sistema politico deteriorato dalla corruzione, ma il compito è arduo. Nelle ultime elezioni del 2019 nessun partito ha conseguito più di un quarto dei seggi, e, come se non bastasse, è arrivata la pandemia, aggravatasi nelle ultime settimane, la cui gestione è stata affidata a un militare collocato alla testa di una cellula di crisi. Dell’epidemia hanno fatto le spese soprattutto quei giovani che vivono di lavoro nero e sono privi di garanzie. Senza contare il crollo del turismo e le sue conseguenze drammatiche. C’è poi l’indebitamento che supera il 100% del Pil e il crollo dell’economia basata soprattutto sulle rimesse degli emigrati, del resto insufficienti a contenere il debito pubblico. Non poteva mancare a questo punto l’aiuto del Fondo monetario internazionale. Ma, com’è noto, la mano tesa del massimo organismo finanziario mondiale si accompagna sempre a interventi di macelleria sociale. Per ottenere i quattro miliardi di dollari previsti, il Fmi chiede il licenziamento di una parte dei dipendenti pubblici, circa il 17%, con un ulteriore aumento della disoccupazione, già al 15,6%, e quindi con un’inevitabile drammatizzazione della questione sociale, mentre l’attuale crisi politica scoraggia fatalmente eventuali investimenti provenienti dall’estero.
Questo quadro allarmante non può non preoccupare i Paesi occidentali, da un lato, e, dall’altro, le organizzazioni che si battono per la tutela dei diritti umani. Gli Stati Uniti, secondo un copione scontato, hanno chiesto l’immediato ripristino delle libertà democratiche attraverso un incontro tra un alto funzionario statunitense e lo stesso presidente Saïed, il quale sarebbe stato esortato a nominare un nuovo premier. A questa richiesta, il capo dello Stato ha risposto sottolineando come il suo agire rientri nelle prerogative previste dalla Costituzione. Stessa preoccupazione è stata espressa dall’Unione europea, storicamente legata alla Tunisia, ex colonia francese: “Chiediamo – recita un comunicato di Bruxelles – il ripristino quanto prima della stabilità istituzionale e, in particolare, la ripresa dell’attività parlamentare, il rispetto dei diritti fondamentali e l’astensione da ogni forma di violenza”. A proposito di diritti umani, EuroMed Rights ha chiesto il mantenimento di un faro di democrazia: “Altrimenti i diritti umani, le garanzie costituzionali e la democrazia saranno a rischio in Tunisia”.
Stesse preoccupazioni sono state espresse da Amnesty International. Per la direttrice Heba Morayef “le libertà e i progressi nel campo dei diritti umani, conquistati a fatica dopo la rivolta del 2011, sono a rischio. Il presidente Kaïs Saïed deve assicurare che ogni azione che egli ordini sia strettamente in linea con gli obblighi di diritto internazionale della Tunisia e, in particolare, che non vi siano purghe politiche”. Insomma, tutelare la democrazia a Tunisi è un imperativo categorico se consideriamo, malgrado tutto, la tradizione del Paese fin dai tempi dell’indipendenza nel 1956, quando sotto la presidenza di Habib Bourghiba vennero cancellate leggi coraniche discriminatorie nei confronti delle donne che ottennero addirittura il diritto di voto. Oggi, invece, a rendere più fragile questa esperienza, sono intervenuti gli attentati islamisti del 2015 e l’incapacità dei partiti, rappresentati da una classe politica scadente e mai rinnovata, di preservare l’esperienza rivoluzionaria. Dimostrazione, se ce n’era bisogno, che mantenere la democrazia in un’area dominata da un islam più o meno radicale, è un’operazione ardua che va incoraggiata con intelligenza e nessuna velleità paracoloniale.