È ben noto che i partiti comunisti vanno avanti per slogan e campagne propagandistiche di massa. Mao ne lanciò una quantità inverosimile, che sarebbe superfluo ricordare, perché la Cina attuale è quella del famoso “arricchitevi!” proclamato una quarantina di anni fa da Deng Xiaoping. Oggi i miliardari cinesi sono 992, mentre negli Stati Uniti soltanto 696. Più dei due terzi del capitale, in Cina, è detenuto da privati. Il fondatore del motore di ricerca Alibaba, Jack Ma, possiede una fortuna di 56 miliardi di dollari, ed è superato, accidenti, dal re dell’acqua minerale, che ne ha 85, così come da altri imprenditori in vari campi. Tutti sono più o meno legati alla cricca dei dirigenti di partito, e tutti pagano delle tasse risibili: in Cina, infatti, non c’è un’imposta patrimoniale e nemmeno una tassa sulle successioni ereditarie. Il prelievo fiscale avviene prevalentemente mediante tasse indirette, che colpiscono soprattutto i redditi modesti.
Ecco allora che, con una sterzata, il segretario generale Xi Jinping lancia una campagna di rettifica sotto lo slogan “prosperità comune”. Ridistribuire il reddito dovrebbe diventare l’imperativo cinese da qui al prossimo congresso comunista, previsto per l’autunno 2022. Che cosa si faranno venire in mente i dirigenti di Pechino per metterlo in pratica? Non sarà che per caso si metterà mano a una patrimoniale, magari astutamente congegnata per non far finire nelle sue maglie i tanti burocrati dai patrimoni non confessati e non confessabili?
L’aspetto della cosa che interessa a noi, però, è un altro. Alla fine anche in Cina, per cercare di avere uno sviluppo appena un po’ più equilibrato, si dovrà operare con la leva fiscale. Paradossale, in fondo: si fa una rivoluzione, fuoco e fiamme, per ritrovarsi poi con un capitalismo selvaggio al massimo grado – che si potrà temperare, volendo, solo con il ricorso a uno degli strumenti caratteristici di qualsiasi paciosa socialdemocrazia: le tasse. Senza la democrazia politica – essendo la Cina un regime post-totalitario, per quanto riguarda il liberismo economico, e autoritario sotto il profilo della forma istituzionale a partito unico –, ma per il resto, cioè per quanto concerne la possibilità di una diffusione del benessere, o per quanto ha a che fare con la sanità pubblica, non facendo altro se non ricalcare le orme di una democrazia sociale, purtroppo da troppi decenni in ribasso anche da noi.
Ritorna alla memoria Filippo Turati che al congresso socialista di Livorno del 1921, quello della scissione comunista, ammoniva che, se alla fine qualcosa di buono avrebbero saputo combinare i rivoluzionari, sarebbe stato molto simile a ciò che aveva cominciato a realizzare lui con il suo gradualismo. In Italia, nel secondo dopoguerra, non v’è dubbio che andò proprio così: messo da parte l’obiettivo della rivoluzione – anche per via di una stramaledetta situazione internazionale –, i comunisti divennero qualcosa di analogo ai socialdemocratici (soprattutto in una regione come l’Emilia); mentre l’intero quadro politico ruotava verso destra, con i “socialdemocratici” e i “socialisti” che, poco alla volta, non furono che stampelle del potere democristiano.
Nel frattempo – anche a causa della triste sorte del blocco sovietico – avremmo perso ogni speranza nella riformabilità dei regimi del “socialismo reale”, a cui, pur con la sua specificità, va apparentato quello cinese. Non ci aspettiamo perciò granché da questa ennesima campagna propagandistica; e però: se arrivasse infine il momento, tra qualche decina d’anni, di un redde rationem anche per i vecchi arnesi di questo comunismo inesistente in quanto tale?