I tempi stringono perché il blocco dei licenziamenti è stato prorogato (almeno per alcuni settori e tipologie di aziende) fino al 31 ottobre. Dal primo novembre tutte le imprese avranno libertà di licenziare, ed è quindi sempre più urgente costruire un nuovo sistema di ammortizzatori sociali in grado di attutire i contraccolpi sociali delle scelte di quegli imprenditori che vogliono interrompere la loro attività o magari trasferirsi all’estero.
Fino a ieri il ministero del Lavoro guidato da Andrea Orlando non aveva ancora inviato la convocazione formale per la ripresa del negoziato con le parti sociali, ma poi si è saputo che il tavolo riaprirà l’8 settembre e che l’oggetto del nuovo confronto (dopo quello che si è tenuto prima della pausa estiva) saranno le politiche attive del lavoro, ovvero tutte quelle misure da mettere in campo per trasformare le crisi aziendali e il rischio della perdita di lavoro in opportunità professionali per i lavoratori. Si parlerà quindi dei nuovi centri per l’impiego che sono stati pensati per costruire un sistema più moderno (sul modello europeo) di collocamento e riqualificazione professionale dei lavoratori.
Anche le parole contano e il governo, forse influenzato dai recenti campionati europei di calcio, ha introdotto il termine “Gol”, Garanzia occupabilità dei lavoratori. Ma è ovvio che le belle formule e le idee di grandi riforme rischiano di cadere nel vuoto se non si metteranno in campo le risorse finanziarie adeguate. Così, anche questa volta, si ripropone l’antico dilemma: chi paga?
Il primo atto
All’inizio del mese di agosto il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha illustrato alle parti sociali l’impianto definitivo per la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali. La dotazione a disposizione del ministro per gli interventi si ferma per ora a 1,5 miliardi di euro, anche se sulle politiche attive si è parlato sui quotidiani anche di cinque miliardi. Il paradosso è solo apparente perché i cinque miliardi per le politiche attive sono stati indicati direttamente dal Piano nazionale di ripresa e resilienza presentato dal governo italiano a Bruxelles. Ma per l’allargamento e revisione della cassa integrazione si tratta, com’è evidente, di risorse insufficienti pensando che gli ammortizzatori sociali, quali appunto la cassa integrazione ordinaria e straordinaria e in generale tutti gli interventi di sostegno dovuti a crisi industriali, dovranno essere estesi a tutti i lavoratori a prescindere dalle dimensioni di impresa e dai settori produttivi in cui si opera.
Il primo braccio di ferro con le parti sociali, e in particolare con le organizzazioni dei datori di lavoro riguarda quindi le fonti di finanziamento della “transizione”. I canali per coprire l’estensione della cassa integrazione anche alle aziende piccole e a settori finora esclusi dal sistema di protezione sociale (terziario, servizi e catene di commercio alimentare) sono infatti due: la contribuzione Inps (finanziata dalle imprese e dagli stessi lavoratori) e la fiscalità generale, ovvero risorse pubbliche statali derivanti dalle tasse.
Le novità
Sul fronte ammortizzatori, la principale novità del progetto di riforma è l’idea di tutelare tutti i lavoratori, inclusi quelli delle aziende più piccole, fino a quindici dipendenti. Scomparirebbe lo strumento della cassa integrazione in deroga, finanziata dalla fiscalità generale, mentre le piccole e medie imprese dovrebbero iniziare ad autofinanziarsi per usufruire degli ammortizzatori sul modello di quanto già fanno le grandi. Accedere poi quindi alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria (in caso di ristrutturazione) con assegni più generosi per i dipendenti, inclusi apprendisti e lavoratori a domicilio.
Secondo quello che si legge nelle linee guida stilate dal ministro Orlando, ma non ancora ufficializzate, per i piccoli imprenditori “virtuosi” che riescano a fare a meno del ricorso alla cassa integrazione per molto tempo è prevista una premialità, sotto forma di riduzione dell’aliquota contributiva. Sulla base del testo, così come concepito ora, si avrebbe inoltre l’introduzione di due nuove causali: “prospettata cessazione dell’attività” e “liquidazione giudiziale”, oltre a specificare che la riorganizzazione aziendale potrà essere invocata anche in caso di “processi di transizione”.
Verrebbe anche rafforzato il contratto di solidarietà, con incentivi e aumento delle percentuali di riduzione dell’orario ed esteso ulteriormente il contratto di espansione, ovvero quello strumento pensato per accompagnare alla pensione i lavoratori più anziani, che dovrebbero essere sostituiti dai giovani. Dovrebbero essere confermate tutte le prerogative dei fondi bilaterali, con la copertura obbligatoria che sarebbe assicurata anche alle aziende più piccole, tra uno e cinque dipendenti, e sarebbe superata la cassa in deroga con la creazione di un fondo emergenziale intersettoriale, finanziato con un contributo a carico dei fondi bilaterali.
Strada in salita
Di fronte alle linee guida presentate dal governo, le reazioni delle parti sociali (sindacati e sistema delle imprese) sono state molto diversificate e l’incontro di agosto non si è concluso bene. Anzi, la cronaca ha registrato più di una reazione nervosa, soprattutto da parte dei rappresentanti della grande distribuzione e dei servizi. I sindacati confederali sono nettamente schierati a favore di un nuovo sistema universale delle protezioni sociali.
Per il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini (che ha parlato di un primo incontro “interlocutorio”) la riforma degli ammortizzatori sociali (collegata alla riforma delle politiche attive) è un tassello fondamentale per la modernizzazione del Paese. Si deve infatti guardare al futuro e pensare alla ripresa e alla ripartenza della economia, trasformando il pesante lascito dell’emergenza sanitaria in una opportunità per cambiare modello economico e di sviluppo. Si tratta di costruire un sistema a carattere universale, in cui tutti i lavoratori abbiano diritto, attraverso un sistema assicurativo, alla copertura di ammortizzatori sia in costanza di lavoro che in assenza di occupazione.
La Cgil (ma in questo non è sola) ha sempre insistito sul tema degli ammortizzatori in costanza di lavoro (ovvero senza interrompere le attività produttive delle aziende), non per salvare quello che non è salvabile, ma perché sempre di più anche settori che sono sempre cresciuti negli ultimi anni (come quelli del terziario, del commercio e del turismo che hanno assorbito parte del calo della manifattura di questi anni) andranno incontro a trasformazioni fortissime, come dimostra il cambio dei modelli di consumo, la crescita dell’e-commerce.
Mantenere il posto di lavoro
“Il governo ha accolto alcune nostre richieste, ma restano ancora altre questioni da affrontare nei tavoli che ripartiranno già nei primi giorni di settembre”, ha detto il segretario generale della Uil, Pier Paolo Bombardieri, al termine dell’incontro di luglio. “Avevamo chiesto l’allargamento a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro e questo è stato previsto, così come sono stati rafforzati i fondi bilaterali”.
Anche dalla Cisl arriva un giudizio positivo sebbene accompagnato da qualche riserva. “Abbiamo espresso oggi al ministro del Lavoro che in generale la riforma degli ammortizzatori prospettata risponde all’esigenza di un sistema di protezione universalistico, che resta basato su una assicurazione obbligatoria, con un forte legame tra sostegni monetari e politiche attive. I principi generali coincidono con l’impostazione della Cisl, vediamo anche accolte alcune richieste da noi poste nel corso degli incontri tecnici, ma dobbiamo ancora migliorare e rafforzare misure, strumenti, regole di utilizzo”, spiega il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra.
La voce delle imprese
Molti dubbi e richieste di chiarimento sui canali di finanziamento dei nuovi ammortizzatori sociali arrivano dal fronte degli imprenditori. Niente aumento degli oneri per le imprese del terziario e del turismo, dice Confesercenti. Come si concilierà l’estensione del diritto alla protezione sociale con la “sostenibilità contributiva”? Se lo chiedono Confcommercio e Confartigianato.
A rincarare la dose dei dubbi e delle critiche al governo, ci pensano anche le cooperative della grande distribuzione. “Il documento predisposto dal ministero del Lavoro – spiega Mauro Lusetti, presidente di Alleanza delle cooperative fondi– segna certamente un passo in avanti, recependo alcune nostre proposte (tra le quali un meccanismo premiale in caso di mancato ricorso agli ammortizzatori sociali, il riconoscimento dei workers buyout quali strumenti di politica attiva del lavoro, l’attribuzione di risorse aggiuntive ai fondi paritetici interprofessionali qualora realizzino percorsi di formazione per lavoratori in cassa integrazione), ma lascia irrisolti diversi aspetti importanti per i quali avevamo manifestato la nostra preoccupazione, primo tra tutti il tema della contribuzione, sia in termini di quantum che di soggetto contributore”.