Attentatori suicidi nella folla che disperatamente si accalca all’ingresso dell’aeroporto di Kabul, un centinaio di morti e tra questi una dozzina di militari statunitensi, Biden in una crisi senza precedenti per un presidente degli Stati Uniti. Sono i dati che nelle ultime ore hanno aggravato ulteriormente il tragico quadro afghano, ponendo lo stesso pacifismo cui ci ispiriamo dinanzi a un problema inedito: come uscire da una guerra sbagliata, da un’occupazione insensata durata vent’anni, senza sbagliare ancor più? La decisione di ritirarsi dall’Afghanistan non era un errore: lo è invece – catastrofe nella catastrofe – il modo in cui questo ritiro avviene.
I militari dell’alleanza occidentale (la Nato, guarda un po’, che in quella parte del mondo mai avrebbe dovuto intervenire), il cui contingente era già stato ridotto a partire dal 2014, avrebbero dovuto lasciare il Paese per ultimi, dopo aver messo al sicuro, se non altro, quel variegato mondo che campava soprattutto nella capitale intorno agli occupanti. Poi si sarebbe dovuto pensare alle persone a rischio di essere uccise: per questo – inutile girarci intorno – bisognava e bisogna trattare con i talebani i modi in cui assicurare loro che non sarebbero state toccate. Ma gli “studenti islamici”, che si sono visti consegnare Kabul senza resistenza, dovevano essere fermati alle porte della capitale al fine di impostare un negoziato. Mai e poi mai si sarebbe dovuto contare sul pressoché inesistente esercito afghano e sul governo fantoccio locale su cui Biden, incoscientemente, ha fatto affidamento.
Per i pacifisti, lo sappiamo, il principio da ripetere come un mantra è “trattare, trattare e ancora trattare”. Non ce la sentiremmo di sostenere, a posteriori, che non si sarebbe dovuto mai tentare di negoziare con Hitler, come provarono a fare le potenze occidentali a Monaco nel 1938, o come fece Stalin l’anno seguente con il famigerato, e peraltro sciagurato per le clausole segrete che conteneva, patto Molotov-Ribbentrop. La storia, con il senno del poi, ci dice che quegli sforzi furono vani: ma nel momento in cui si cercava di salvare il salvabile della pace in Europa ciò non si poteva ancora sapere.
I fondamentalismi islamici, del resto – tra loro nemici, come mostra anche l’attentato all’aeroporto di Kabul, attribuito al cosiddetto Stato islamico della provincia del Khorasan –, non sono minimamente paragonabili all’hitlerismo. Hanno radici antiche e il loro incredibile sviluppo contemporaneo è in larga misura il frutto del cosiddetto disordine mondiale succeduto alla scomparsa dei socialismi dalla scena globale e al crollo della perversa variante comunista sovietica. Va ricordato che l’attuale tragedia affonda le radici in quel lontano 1979 in cui i brontosauri brezneviani decisero l’invasione a causa delle liti interne a quello che consideravano il loro protettorato afghano. Il ritiro che ne seguì, una decina d’anni dopo, vide aprirsi una guerra civile tra i mujahidin (fino a quel momento sostenuti dagli americani contro l’Armata rossa), divisi tra le svariate etnie e correnti islamiche di cui si compone il Paese – e di cui i talebani non erano che la parte maggioritaria pashtun, provvista di agganci con i pashtun del Pakistan.
Un Occidente appena un po’ più saggio, cioè non diretto dai “neocons” dell’amministrazione di Bush figlio, mai e poi mai avrebbe dovuto immischiarsi. Si sarebbe potuto dare la caccia a Bin Laden, semmai, però senza pensare di costruire uno Stato-nazione in una terra in cui dominavano le bande armate. Eppure molti democratici – e tra questi lo stesso Biden, all’epoca – furono essi stessi sedotti dall’idea di mettere mano alla nation building cara ai neoconservatori, sebbene il presidente abbia di recente negato che il progetto fosse quello.
Oggi lo scenario non è granché mutato rispetto al 2001. Da pacifisti avremmo perfino potuto augurarci una pax talebana – ma questa non c’è, e gli attentati suicidi confermano come la ormai eterna guerra civile afghana continui ancora. Non sarà la valle del Panjshir l’epicentro della resistenza armata contro i talebani, perché i seguaci del figlio di Massud sembrano disposti a trattare; saranno piuttosto i jihadisti dello Stato islamico che cercheranno, pressoché sbaragliati tra Siria e Iraq, una rivincita nel teatro afghano.
I pacifisti non possono limitarsi a invocare i pur giustissimi corridoi umanitari, perché in una situazione del genere i “corridoi” si trasformano facilmente in cunicoli della morte. Essi sanno bene che l’uso delle armi è in certi casi necessario, purché proporzionato e limitato nel tempo. La situazione che si è creata a Kabul va gestita creando una zona franca intorno all’aeroporto nel giro di qualche chilometro, controllata da una task force internazionale e con un paio di corridoi verso il centro della città muniti di posti di blocco anti-terrorismo.
Questione aperta: i talebani accetterebbero una simile soluzione, destinata a durare alcuni mesi, dopo avere detto che tutte le forze armate straniere devono lasciare il Paese entro il 31 agosto? In realtà si può presumere che, non controllando neppure essi stessi una Kabul spalancatasi dinanzi a loro quasi per miracolo, un accordo potrebbe essere trovato. In caso contrario, ci sarebbe da vedere come procedere. Ma una cosa è certa: negoziare con i talebani è indispensabile. Gli americani, d’altronde, lo hanno già fatto da tempo.