Il recente scandalo del caporalato, in una grande azienda tipografica del Veneto, ci fa sbattere la faccia contro la realtà. Condizioni disumane, sfruttamento, rapporti di produzione durissimi con implicazioni criminali. E, a questo punto, indagini e provvedimenti: oggi si può andare in carcere per i libri ma non per quello che c’è scritto.
L’industria editoriale si adegua a ciò che accade nell’agricoltura, nella logistica, nei servizi. Il lavoro intellettuale si illude di stare in una nicchia al riparo dalla storia, in una fureria di imboscati da cui la trincea si sente di lontano. Senza questo malinteso la questione non sarebbe più dirompente di altre, da quella dei braccianti a quella dei fattorini.
All’oggetto libro si attribuisce una funzione taumaturgica, un valore che va oltre il contenuto e anzi lo vivifica e lo consacra. Dino Campana che dice “ho bisogno di essere stampato” – fusione formidabile di autore e testo – lo esprime in modo diversamente lucido. La tenacia dei bibliofili lo conferma, e l’appassionato che dopo tanti anni trova la tiratura della Saison en enfer, quella che Rimbaud non poté prendere, prova un piacere irripetibile.
Già, ma furono i due poeti, con le tasche vuote, a pagare o promettere il prezzo agli oscuri stampatori. Qui, con un giro di denaro importante che si concentra in pochissimi gruppi, siamo di fronte a un cortocircuito orrendo tra cultura e sfruttamento. Abbrutimento, ma insieme informazione e pensiero. Con questo modo di fare il libro, il lavoro culturale si concreta nella deculturizzazione del lavoro, la civiltà si rapprende nella barbarie; ma è una violenza ben incartata, come una caramella velenosa, e anzi questo strazio sembra l’unico modo perché chi scrive e chi legge entrino in contatto. Scrittore e lettore, però, non riescono a dirsi questa vergogna, a riconoscere che hanno la coscienza sporca. C’è una nudità, ma la foglia di fico è di carta e si accarezza, si sfoglia, si serba e vi si torna.
Poche cose parlano della cultura come questa: un operaio pachistano in un campo chiede aiuto, coperto di lividi, legato e terrorizzato, e racconta il suo pezzo di realtà, l’anello indispensabile di una catena produttiva che va dalle mani di chi scrive agli occhi di chi legge. L’oggetto libro media fra corpi, appunto, ma in mezzo c’è la carne invisibile di quello sfruttato che ha avuto il coraggio di rivolgersi ai sindacati, perché la paga è misera, perché un camorrista suo connazionale, oppure no, lo taglieggia, perché sta in una baracca, mentre nel frattempo la ditta fa denaro col prestigio di un operatore culturale, andando alle fiere di settore e prendendo parte ai premi.
Tanti prodotti seguono la stessa trafila, da ciò che viene in tavola ai tessuti, a molto altro. Ma a questi non si affida l’anima, si sa che diventano sterco, cenci smessi, rifiuti. Il libro no, a quello ci si aggrappa come a un indiscutibile statuto di verità, di equanimità illustre o di partigianeria affidabile. Possono esserci schiavi, possono stridere ossa nel frigo o in guardaroba, non in biblioteca.
Questa brutta storia smaschera una reificazione. Il libro-crimine non ha riguardi. I grandi stampatori possono dividere produzione, stoccaggio e smistamento, secondo la qualità della carta e della rilegatura, oppure secondo le scadenze o altro; il valore del contenuto non interessa. Gli operai sfruttati nell’ingranaggio non ne sono neanche consapevoli, e nel caso che ha fatto scalpore non sanno neppure bene l’italiano, forse appena ne intendono l’alfabeto.
La maggior parte del prezzo finale di un libro resta nelle mani delle imprese di produzione e distribuzione; prima e dopo ci sono redattori e autori malpagati, o al contrario sopravvalutati, librerie supermercato o librai in dissesto e fattorini appesi a un algoritmo; sotto di loro, schiavi. E molti di quei libri non dicono niente, sono vuoti; l’oppresso che li stampa, li impacchetta, li impila – quintali ogni giorno – è l’unico a intenderne il senso: la violenza. Lui ha gli occhiali che smascherano l’inganno: come nel film Essi vivono, legge su ogni titolo “Obey, stay asleep” e non gli credono.
Il grado zero della scrittura – Roland Barthes non poteva prevederlo – adesso arriva dopo la sua stesura sul supporto e prima della decodificazione; il lungo lavoro intellettuale dell’età moderna è aggirato, il sangue e il sudore riprendono il loro posto. C’è un grado infero dello scrivere, un sottosuolo immemore che passa sopra il corpo di un anonimo, con un nome ostico che autore e lettore non conoscono, e che certe volte ha più coraggio di loro, visto che si ribella.
In questa fucina negra, in questo Malebolge che per colmo di paradosso fa l’incanto del segno, tutto è livellato. Gli stabilimenti producono oggetti di gusto o commerciali o effimeri, e anche se qualche autore ha fatto sapere di avere rivisto i suoi contratti (sincerità o autopromozione?) è difficile pensare a un controllo efficace, a un settore biolibrario, a una stampa socialmente sostenibile su larga scala.
Il rapporto con la concentrazione editoriale è evidente, visto che pochissimi grandi gruppi servono i molti marchi editoriali, a loro volta apparentati in un pugno di famiglie padronali o polverizzati in editoria detta indipendente. Ma nulla autorizza a pensare che il rafforzamento dei piccoli editori e la concorrenza nella distribuzione libraria, a questo punto, possano rimediare. Il mercato, senza alternative, condiziona tutte le produzioni, anche quelle senza distribuzione nelle librerie. I servizi di stampa tramite Internet e l’autoproduzione, a portata di tastiera, anche loro si servono di stampatori, e si torna al punto di partenza, al nome muto, al corpo invisibile, a una persona incatenata che piange in una lingua mista e confusa, magari nella campagna semiurbana e stravolta del Veneto, quella che Andrea Zanzotto affidava ad altri segni, ai versi di Dietro il paesaggio. Quell’uomo – già, quale, il pachistano o il poeta, o entrambi? – la coscienza lo tollera nel frigo e nel cassetto, ma stona quando grida da un libro o contro i libri.
Se esiste una soluzione, passa dalla riattivazione della coscienza critica e della sana curiosità di chi legge: fa tenerezza, anzi fa invidia sapere che certi libri del passato sono stati stampati dopo la raccolta di impegni d’acquisto in cerchie di lettori e simpatizzanti, e che un giovanissimo editore, improvvisato ma abile, mandava avanti la ditta vivendo di poco e tenendo da sé i libri contabili. Aveva scelto per motto “Che ho a che fare io con gli schiavi?”, si chiamava Piero Gobetti, e le bastonate che prese dai caporali in camicia nera ci rubarono una delle menti più preziose del Novecento.
Immagine di apertura: fotogramma tratto dal film di John Carpenter “Essi vivono”