La risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza dell’Onu autorizzò i francesi ad aprire il fuoco sulle truppe speciali di Gheddafi che avevano raggiunto la periferia di Bengasi e si preparavano a un bagno di sangue contro gli insorti. Essa prevedeva un immediato cessate il fuoco, autorizzando la comunità internazionale a creare una no-fly zone, e a proteggere i civili con tutti i mezzi. Russi e cinesi si astennero nella votazione in Consiglio di sicurezza.
Due giorni dopo questa risoluzione, i caccia francesi entrarono in azione colpendo i mezzi blindati di Gheddafi, mentre le navi militari inglesi e americane iniziarono a centrare obiettivi militari. Era da un mese, dal 17 febbraio del 2011, che Bengasi, capitale della Cirenaica, aveva iniziato a ribellarsi al regime di Gheddafi. E, con Bengasi, al-Beida e la stessa Tripoli, roccaforte del regime. Il pretesto fu l’anniversario del 17 febbraio del 2006, quando la manifestazione della collera contro il consolato italiano (distrutto) – per via della t-shirt contro l’islam del leghista Roberto Calderoli –degenerò in incidenti e scontri armati, e ci furono diversi morti e feriti.
Iniziò così il rovesciamento del regime di Gheddafi. La Cirenaica che sentiva il fascino dei Fratelli musulmani del vicino Egitto si radicalizzò. Nacque il califfato di Derna e la regione diventò un punto di riferimento per i terroristi islamisti. Il rovesciamento del regime si consumò il 20 ottobre del 2011 con l’uccisione di Gheddafi a Sirte, dove era nato e si sentiva al sicuro. L’imboscata fu organizzata da una “manina” straniera.
Intervento straniero in Libia, primavere arabe dalla Tunisia all’Egitto (e non solo), salvo poi vedere realizzarsi la restaurazione al Cairo. Una intera regione che si affaccia sul Mediterraneo diventata inaffidabile. Con presenze di gruppi armati jihadisti che la rendono impraticabile. Chi ha deciso di stravolgere gli equilibri politici di quest’area rendendola instabile? Quale tribunale internazionale? Quanti anni sono passati da quando i giudici dell’Aja sono finiti in pensione? E perché?
È come se la diplomazia internazionale avesse deciso di affidarsi solo alle armi, negando così il proprio ruolo e piegando ai propri interessi l’Onu, la Nato, gli organismi internazionali. Dieci anni dopo il rovesciamento di Gheddafi, la Libia non è riuscita ancora a trovare un equilibrio tra le diverse fazioni, tra la Tripolitania, il Fezzan e la Cirenaica. E il futuro del Paese è legato alle elezioni fissate per la fine del 2021. Nel frattempo, al tavolo della Libia, si sono seduti diversi convitati di pietra: i francesi, i turchi, i russi, i qatarioti. L’Italia, pur essendo l’unico Paese ad avere sottoscritto un trattato di amicizia tra i due popoli, ratificato da ambedue i parlamenti, in tutti questi anni ha mantenuto una presenza opaca nel gioco delle diplomazie.
La svolta nelle relazioni internazionali – che avrebbe segnato la più lunga stagione di instabilità geopolitica alle porte dell’Europa, con i conflitti in Afghanistan, Iraq e Siria, e nei paesi rivieraschi del Mediterraneo – aveva avuto inizio dieci anni prima, all’indomani dell’11 settembre 2001, quando l’attacco terroristico di al-Qaida agli Stati Uniti aveva cambiato l’agenda della politica e della giustizia internazionale. Era il 7 ottobre 2001 quando iniziarono i bombardamenti degli americani e dei loro alleati contro i talebani, i radicali islamisti al potere in Afghanistan che avevano dato ospitalità ad al-Qaida, l’organizzazione guidata da Osama Bin Laden, responsabile degli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti. “Operation Enduring Freedom” – fu chiamata così l’operazione militare dell’Occidente – ebbe una cornice di legittimità mediante alcune risoluzioni dell’Onu che avevano l’obiettivo di annientare al-Qaida, di impedire al terrorismo di utilizzare armi di distruzione di massa, tagliando i ponti tra gli Stati complici e le organizzazioni jihadiste.
Com’è finita, vent’anni dopo, è oggi sotto gli occhi di tutti. Osama Bin Laden fu ucciso in una operazione di intelligence americana ad Abbottabad, nel Pakistan, il 2 maggio del 2011. Con Enduring Freedom si inaugurò il nuovo millennio. Toccherà poco dopo all’Iraq e, a seguire, alla Siria. In pochi anni sono saltati i pilastri della giustizia internazionale. Il Consiglio di sicurezza ha subito il condizionamento degli Stati Uniti e dei suoi alleati, autorizzando l’invasione dell’Iraq sulla base del più grande inganno della storia delle diplomazie angloamericane. Tony Blair e George Bush convinsero l’Onu ad autorizzare l’attacco fingendo di ritenere che il dittatore Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa.
Il 10 ottobre 2002 la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti approvò a larga maggioranza una risoluzione che conferiva pieno mandato al presidente per l’uso della forza contro l’Iraq qualora questo Paese avesse insistito a non collaborare con la comunità internazionale. L’8 novembre 2002 il Consiglio di sicurezza approvò la risoluzione 1441. Fu il primo passo verso la guerra. Nella risoluzione, infatti, richiamandosi a precedenti decisioni, l’Iraq venne invitato a eseguire i dettati delle risoluzioni procedendo al disarmo di armi biologiche o biochimiche. Il regime iracheno doveva autorizzare l’ispezione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, con l’accesso degli ispettori Onu a tutti gli impianti di produzioni di armi: l’Iraq aveva continuato a violare sostanzialmente i suoi obblighi e dunque doveva subire un regime rafforzato di ispezioni. Pochi giorni dopo, il 13 novembre, l’Iraq accettò le decisioni dell’Onu. Ma non servì a impedire la guerra, sebbene nel rapporto del 27 gennaio 2003 gli ispettori Onu non avessero denunciato concrete violazioni della risoluzione.
Il 29 gennaio otto capi di Stato e di governo di Paesi dell’Unione europea o prossimi alla adesione (Italia, Ungheria, Polonia, Danimarca, Portogallo e Repubblica Ceca) solidarizzarono con Washington e sottolinearono che la credibilità del Consiglio di sicurezza dipendeva dalla capacità di far rispettare le risoluzioni adottate. Il 5 febbraio il segretario di Stato americano, Colin Powell, parlava nel Palazzo di vetro convinto di avere come prova la pistola fumante, di inchiodare così il regime di Saddam Hussein, provando l’esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq. Una bufala. Ma intanto la macchina da guerra era stata messa in moto e non si poteva fermare. Il 20 marzo aveva inizio la guerra. Saddam Hussein veniva impiccato il 30 dicembre 2006 dopo un processo sommario. Perché il dittatore non fu trasferito all’Aja – tribunale che non commina pene capitali – per essere sottoposto a un processo regolare? Perché nessuno ebbe mai da rispondere del fatto che non furono trovate le armi di distruzione di massa semplicemente perché inesistenti?
Afghanistan, Iraq: due interventi dalle conseguenze devastanti. Manca all’appello il terzo dittatore, il siriano Assad. E sullo sfondo si intravedono altri due Paesi che andrebbero “normalizzati”: la Turchia di Erdogan e l’Iran degli ayatollah.
In Siria, intelligence occidentali sono al lavoro da tempo, finanziando e armando gruppi di opposizione al regime di Bashar al-Assad. Con l’incendio delle primavere arabe si infiamma anche la Siria. È il 15 marzo del 2011 quando scoccano le prime scintille, con le manifestazioni popolari di protesta contro il regime, in un gioco di specchi con le vicine realtà in rivolta. Un anno dopo, in Siria, è guerra civile. E lo scenario internazionale comincia ad agitarsi. Entrano in campo diversi Paesi. Il conflitto si radicalizza. Paesi del Golfo persico finanziano gruppi sunniti radicali (salafiti) che si affacciano sul teatro di guerra. Il conflitto diventa uno scontro religioso tra fondamentalisti sunniti e il gruppo minoritario alauita (sciita) del clan di Assad. L’Iran sciita scende in campo per difendere Assad. Guerriglieri arrivano dall’Iraq e dell’Afghanistan, mentre i sunniti sono appoggiati dalla Turchia di Erdogan, dall’Arabia saudita e dal Qatar. Al Consiglio di sicurezza dell’Onu si vive un drammatico stallo, con i russi e cinesi che difendono Assad, mentre americani, francesi e inglesi appoggiano i ribelli.
Le formazioni armate sunnite di opposizione non trovano pieno sostegno nella popolazione sunnita, che in gran parte appoggia il regime. Lo stallo provoca la formazione del cosiddetto Stato islamico, l’Isis, tra l’Iraq e la Siria. I suoi combattenti arrivano da diversi teatri di guerra e, nei fatti, attraggono gli islamisti a livello mondiale, mettendo in crisi l’egemonia combattente di al-Qaida; mentre soltanto i guerriglieri curdi, tra la Siria e l’Iraq, si fanno valere sul campo contro di essi.
Dieci anni dopo, Assad è comunque sempre al potere. Giorno dopo giorno la legittimità degli organismi internazionali è erosa. Il Consiglio di sicurezza è delegittimato. Chi ricorda il nome del numero uno del Palazzo di vetro? E quale spazio si è ritagliata la giustizia penale internazionale? L’ultima sua iniziativa è stata l’arresto, nell’autunno scorso, di Hashim Thaçi. Ex ministro, ex premier ed ex capo di Stato del Kosovo, accusato di crimini contro l’umanità durante la guerra Nato del 1999 contro la Serbia. Gli americani puntarono su Thaçi, un criminale kosovaro trafficante di armi, droga e prostituzione in Svizzera, a capo delle formazioni militari Uck. L’Italia avrebbe preferito che fosse scelto l’intellettuale Rugova. Prigionieri serbi e rom torturati e fatti sparire, con la complicità dei cugini albanesi. Un’altra pagina nera della storia che andrebbe riscritta.