(Questo articolo è stato pubblicato il 2 aprile 2021) Fu davvero una rivoluzione quella legge che quaranta anni fa ha “smilitarizzato” la Polizia di Stato. Un movimento democratico dal basso, le migliori energie civili si unirono ottenendo un nuovo ordinamento dai tratti illuministici, che cancellava il ricordo della polizia scelbiana e dei suoi manganelli, e annunciava la nascita di un organismo pensato non più separato dalla società, ma modellato a tutela della società e in grado di far crescere i suoi appartenenti ben lontano dalle incrostazioni di una cultura poliziesca di stampo fascista. Neanche Francesco Cossiga, che si distinse per la sua vicinanza ai corpi militari e per il pugno duro nelle piazze (Giorgiana Masi ne è il triste simbolo), poté fermare quell’onda democratica.
Sono passati molti anni da allora e in questi giorni tutti celebrano quel felice passaggio della Repubblica che ha introdotto il sindacalismo delle forze di polizia per tutelare le condizioni di lavoro dei suoi appartenenti e garantire che la pubblica sicurezza sia svolta per conto e nell’interesse di tutti: fu una tappa nella crescita della nostra democrazia, non c’è dubbio. La riforma introdusse la figura dell’“ispettore” per andare oltre il modello inquisitorio, con un nuovo metodo di conduzione delle indagini che riducesse l’arbitrarietà delle ricerche e della formazione della prova, e sancisse la parificazione del ruolo delle donne per salario e funzioni, aspetto su cui c’è davvero ancora molto da fare.
Uno dei principali curatori della grande riforma fu il prefetto Carlo Mosca, un modello di servitore dello Stato, formazione militare, che spiegava il concetto di sicurezza come diritto alla libertà e come realizzazione collettiva di una società costantemente in grado di superare le diseguaglianze ovunque si annidino. Mosca ha istruito i dirigenti a declinare nella realtà la nuova legge, ma proprio all’alba di questo quarantesimo anniversario è venuto a mancare all’età di settantacinque anni: una scomparsa che fatalmente segna il declino di quell’epoca e il dissolversi di una riforma di cui è bene fare un bilancio oltre che cantarne le lodi. Perché avviene sempre che le più alte intenzioni facciano fatica a trovare il loro modo di esprimersi.
La conquista della smilitarizzazione resta immutata ma la sua principale conseguenza, cioè la sindacalizzazione della Polizia, è stata una occasione persa perché si è tradotta solo nella rappresentanza di interessi particolari. All’inizio era il Sindacato Unitario Lavoratori della Polizia, poi mille sigle corporative nelle quali si è frantumata la difesa effettiva degli uomini e delle donne della Polizia, divisi da enormi diseguaglianze interne molto accentuate nelle retribuzioni e nei trattamenti – tra le alte gerarchie e i profili più bassi e operativi. La sindacalizzazione si è trasformata, in definitiva, nella proliferazione di nicchie di potere contrattuale, mentre l’altro colosso della pubblica sicurezza, l’Arma dei carabinieri, avanzava, ricoprendo funzioni anche civili (soprattutto ambiente e sanità), facendo perdere progressivamente e lentamente terreno alla Polizia di Stato.
Nell’Arma è stata impossibile la creazione di sindacati interni fino a una sentenza della Consulta del 2018, che stabilisce la assoluta incostituzionalità del divieto. Ma non c’è ancora una legge per consentire la sindacalizzazione e difficilmente vedrà presto la luce. Allora l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta (governo Conte 1) cercò un varco per aggirare il vuoto legislativo firmando una circolare per dare attuazione al principio stabilito dalla Consulta: così oggi si comincia a discutere di associazioni interne, ma in ogni caso si tratta di organismi che non hanno un vero potere contrattuale né possono metter becco sull’ordinamento interno.
Con la grande riforma del 1981, si è perso in definitiva l’appuntamento con l’unicità di un’autorità nazionale di pubblica sicurezza civile. L’articolo 16 della legge del 1981 stabilisce che: “1. Ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, oltre alla Polizia di Stato sono forze di polizia, fermi restando i rispettivi ordinamenti e dipendenze: a) l’Arma dei carabinieri, quale forza armata in servizio permanente di pubblica sicurezza; b) il corpo della Guardia di Finanza, per il concorso al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. 2. Fatte salve le rispettive attribuzioni e le normative dei vigenti ordinamenti, sono altresì forze di polizia e possono essere chiamati a concorrere nell’espletamento di servizi di ordine e sicurezza pubblica il corpo degli Agenti di Custodia e il corpo Forestale dello Stato. 3. Le forze di polizia possono essere utilizzate anche per il servizio di pubblico soccorso”.
La riforma ha conferito al ministro dell’Interno la responsabilità della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica: il Viminale “è autorità nazionale di pubblica sicurezza. Ha l’alta direzione dei servizi di ordine e sicurezza pubblica e coordina in materia i compiti e le attività delle forze di polizia”; prefetto e questore rappresentano le autorità provinciali, per la gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica, e al capo della Polizia è affidato il coordinamento di tutte le forze di polizia, ma sul terreno reale le altre forze non fanno riferimento al Viminale. Guardia di Finanza e Carabinieri, anch’essi con funzioni di polizia giudiziaria, rappresentano corpi militari ben separati. La sovrapposizione territoriale e di funzioni ha affogato il principio ispiratore di quella riforma, che intendeva assicurare la democraticità del modo in cui è intesa e attuata la sicurezza dello Stato. Per stare ai nostri giorni, lo prova in modo plateale la partita giocata sul “cadavere” della Forestale: quando il governo Renzi, nel 2016, ha scelto il suo azzeramento in nome di una scellerata razionalizzazione della pubblica amministrazione, sarebbe stato naturale far confluire gli agenti dei Parchi nel comparto della sicurezza pubblica, anziché procedere alla loro militarizzazione con un impeto paragonabile a quello delle armate del generale Bava Beccaris. Ma non se ne parlò neanche. La Polizia di Stato non entrò proprio nella partita. Lì si è consumato uno spostamento dell’asse del potere decisamente sfavorevole alla centralità della Polizia di Stato che dovrebbe essere, invece, il cuore pulsante e strategico della sicurezza pubblica. Quella riforma di quarant’anni fa non è stata tradita, ma oggi è tempo di una nuova rivoluzione.