(Questo articolo è stato pubblicato il 1 aprile 2021) Mentre “noi” (qualunque schiera di individui tale pronome designi) ci infervoriamo nel discutere di meri cartelli elettorali da costruire in fretta per contrastare la barbarie che incede, “loro” (che non è invece dubbio chi e cosa siano) evitano di sprecare pur solo un minuto e si danno incessantemente da fare. Forse anche perché, mentre noi abbiamo smesso da anni di buttare l’occhio su Gramsci, ritenendone magari la lezione male invecchiata al cospetto, per esempio, di categorie interpretative di matrice biopolitica, loro hanno preso in segreto a leggerlo, quello stesso Gramsci in origine nostro, e ne hanno ricavato, banalizzandolo strumentalmente, un’idea semplice semplice ma inconfutabile. L’idea che, per una proposta politica, si tratta, ogni volta, di costruire, prima che alleanze tra sigle, partiti o comitati, forme di egemonia culturale, se essa non vuole ridursi ad autistico orizzonte per happy fews o a pura petizione di principio o a impotente discorso quando autoconsolatorio e quando autoaccusatorio.
L’eroe Mussolini e gli immigrati assassini: i fascio-fumetti invadono le scuole. È, questo, il titolo di un articolo, a firma Paolo Berizzi, apparso lo scorso 30 marzo sul sito di “la Repubblica” e accessibile ai soli abbonati al quotidiano. Io non lo sono, ma la notizia, cui il contributo allude, di un’elargizione di nero sapere alle classi di nostri studenti non mi giunge affatto nuova. Vivo e insegno nelle Marche, che è il vero, disinibito, infaticabile laboratorio politico dell’attuale destra italiana.
Qui, nei mesi scorsi, abbiamo sentito il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia dichiarare l’urgenza di una “battaglia” per la natalità che consenta al “popolo” indigeno di riaffermare la sua “identità” e riscoprire la propria “capacità di riproduzione”, scongiurando, una volta per tutte, il pericolo di una “sostituzione” etnica favorita “dall’arrivo di persone che provengono da altre storie, continenti, etnie”. Abbiamo appreso che l’assessore regionale a Cultura, Istruzione e Sport si professa – magari proprio perché persuasa che una simile lotta demografica vada combattuta e vinta – fieramente contraria all’aborto. Abbiamo scoperto che l’assessore a Sanità, Servizi Sociali, Famiglia, Immigrazione e Sicurezza della Regione accusa l’Europa di aver rinnegato le proprie “radici giudaico-cristiane”, ad esse oscenamente preferendo – forse vivo in qualche altro mondo, o almeno in un’Italia di pura fantasia distopica, perché non me ne ero minimamente accorto – “quelle filosofiche greche della laicità spinta”.
Qui nelle Marche – soprattutto, e per tornare alla questione affrontata da Berizzi nel suo contributo – lo scorso 9 febbraio la stampa locale ci ha informato che l’indomani il sindaco di Ascoli Piceno, esponente di Fratelli d’Italia, avrebbe celebrato la Giornata del Ricordo regalando agli studenti della città due libri a fumetti, Foiba rossa. Norma Cossetto. Storia di un’italiana e Nino Benvenuti. Il mio esodo dall’Istria, pubblicati da Ferrogallico, casa editrice vicina all’estrema destra e gestita, tra gli altri, da due dirigenti di Forza Nuova. Iniziativa, questa programmata in una città sì cattolica e conservatrice, ma pur sempre medaglia d’oro al valor militare per attività partigiane, che non stupisce abbia visto protagonista un primo cittadino noto, a livello nazionale, per aver partecipato, il 28 ottobre del 2019, a una cena commemorativa della Marcia su Roma tenutasi ad Acquasanta Terme, luogo in cui fascisti e nazisti, l’11 marzo del 1944, pensarono bene di trucidare quarantadue persone. Come pure iniziativa, questa messa in cantiere ad Ascoli Piceno, che ha subito raccolto – c’era forse da dubitarne? – l’entusiasmo, quasi minaccioso, del segretario della locale sezione di Casa Pound. Il quale non si è limitato a esprimere tutta la propria soddisfazione: “Cominciamo a fare sul serio!”. Egli ha poi anche aggiunto: “Ho come l’impressione che il meglio debba ancora venire”.
Il rischio è, appunto, che queste parole possano presto suonare come una profezia facilmente capace di autoavverarsi. Perché la questione non è tanto che retoriche e umori fascistici appaiano oggi del tutto sdoganati, in una società quasi neo-tribale e, in particolar modo, tra le fila di un’impoverita classe media angosciata dallo spettro di una catastrofe per sé definitiva e quindi – verrebbe da precisare: come sempre, in frangenti simili – inselvatichitasi. Piuttosto, la faccenda è che tali discorsi elementari e sentimenti brutali trovano, nelle forze politiche che principalmente per calcolo (la Lega) o per proprio immodificabile Dna (Fratelli d’Italia) li sanno aggiornare con ricette populistiche di marca sovranista non meno che sanfedista, anche e soprattutto chi – pur talora baruffando col sodale per la leadership all’interno del comune recinto ideologico – riesca a gratificarli, a premiarli, a dilatarne la eco, a rinsaldarne la tenuta emotiva, fondendoli in un’unica e credibile e organica narrazione identitaria in nome della quale avviare poi, a mano a mano che si siano conquistate le antiche casematte del potere periferico o centrale, autentici e coerenti programmi di egemonia culturale. Destinati, a propria volta, ad essere ben ricompensati dalle urne elettorali.
Non è allora un caso che – come si ricava dal sommario del succitato articolo apparso sul sito di “la Repubblica” – amministratori e assessori regionali perlopiù di Fratelli d’Italia stiano donando a biblioteche e istituti, un po’ dappertutto nel nostro Paese, opuscoli, graphic novel e libri animati pubblicati dalla galassia, in particolare tedesca, dell’ultradestra. Nostalgici e revisionisti hanno sempre raccontato la favola di una scuola italiana storicamente colonizzata da professori e manuali (in special modo: di storia e di filosofia) comunisti. Che sarà pur stato vero un tempo, chissà, ma che vero certamente non lo era più già quando a frequentare in qualità di allievo un modesto liceo di provincia, negli anni Novanta, ero io, né tantomeno lo è oggi che, in veste di docente, tutto noto, nelle diverse sale professori degli istituti in cui mi capita di insegnare, tranne che colleghi pronti alla rivoluzione brandendo, a mo’ di falci e martelli, i testi in adozione nelle loro classi. Testi che, sia detto giusto per inciso e resuscitando una vecchia formula caduta in disuso, in genere non brillano affatto per impostazioni anche solo vagamente materialistico-dialettiche.
Sia come sia, il fatto comunque è che la destra non se l’è dimenticato: alle narrazioni culturali si educa. E, quando si tratti di narrazioni culturali orgogliosamente belluine, è persino facile riuscire nell’intento. Basta legittimare i peggiori istinti già rappresi in una data epoca e rinunciare completamente a contrastarli. È sufficiente convertire la formazione in apprendistato. Tale destra ha dunque abbandonato ogni pruderie intellettuale – posto che mai ne abbia avuta – e ha messo la scuola dritta dritta nel mirino: la concepisce al pari di un’impresa da scalare giacché in grado di restituirle ottimi dividendi. Perché presidi e professori votano, ugualmente votano i famigliari degli studenti e questi ultimi parimenti voteranno.
Ci si può, davanti a nemici siffatti e strategicamente tanto lucidi, appassionare davvero a ragionamenti, anche sofisticati, sulle alleanze tra partiti che, a sinistra, occorrerebbe stringere per schivare l’apocalisse? Può realmente interessarci qualcosa di chi sia l’ennesimo nuovo leader del Pd e di quanto egli magari abbia in testa per intercettare la più ampia quota possibile di futuri votanti, fin quando tali avvicendamenti alla guida del partito o tali proposte non comportino l’accorta elaborazione di un qualche solido progetto culturale – auspicabilmente incompatibile con quello avversario – e invece suonino come tentativi di mera ingegneria elettorale? E, da una parte, ci si può davvero illudere che con quanto via via resterà degli attuali 5 Stelle, col loro qualunquismo geneticamente destrorso, col loro – per citare appunto Gramsci – “sovversivismo dal basso”, un comune disegno culturale vagamente ispirato all’eredità del socialismo, e capace di andare oltre una pura sinergia in vista di questa o quell’altra chiamata alle urne, possa mai essere abbozzato? Ma, dall’altro lato, le forze che, alla sinistra del Pd, ambirebbero proprio a definire proposte sociali basate sull’eguaglianza dei diritti e sulla riduzione delle risorte barriere di classe, quanto intendono ancora attardarsi con deleterie retoriche populiste senza volersi accorgere che, con buona pace di Laclau, un populismo percepito socialisteggiante o addirittura comunistico, perlomeno nei sistemi economici e politici occidentali, è solo un ipocrita truismo, oltre che una pacchiana contraddizione in termini? Quanto tempo gradiscono ancora impiegare, tali movimenti o partiti, per comprendere, anzi, che la stessa parola “popolo”, nel nuovo millennio, evoca, comunque la si impieghi, un immaginario del tutto regressivo e implica, quale che sia il senso che si intende attribuirle, il riferimento a categorie critiche reazionarie?
Da destra, quelli sparano con i cannoni dell’ideologia. Se, da sinistra, a risponder loro continueranno ad essere le rudimentali fionde rappresentate da dirigiste armate Brancaleone più o meno d’apparato, che queste ultime, un domani, la spuntino in una qualche battaglia potrà talvolta persino accadere. E tuttavia, esclusivamente al prezzo o di esserci riuscite, non avendone di proprie, per aver pronunciato a voce giusto più sommessa le parole d’ordine di nemici quindi trionfanti sul piano culturale, benché temporaneamente sconfitti nello scontro, o di non potersi godere troppo a lungo il parziale successo. Quando gli toccasse in sorte di cogliere i frutti di un’inattesa vittoria, un simile esercito raccogliticcio non saprebbe infatti che mutarsi in una compagine percorsa al proprio interno, e in ultimo sfaldata, da calcoli e interessi e disegni elettorali confliggenti, sicché esso consegnerebbe in ultimo agli avversari, per di più su un piatto d’oro, la vittoria conclusiva della guerra.
Il copione, pressoché fisso, della commedia dell’arte della politica italiana dalla nascita della cosiddetta seconda Repubblica ai giorni nostri. Né il presente annuncia un futuro all’insegna di particolari stravolgimenti di programma.