Se c’è qualcosa con cui misurare ciò che ancora può essere detto “progresso”, questo è l’Indice di sviluppo umano (Isu), e, al suo interno, la durata della vita media o la speranza di vita alla nascita. Non v’è dubbio che questa (per quanto in maniera non uniforme sull’intero pianeta) sia aumentata negli scorsi decenni. Ciò segnala un avanzamento della tecnologia e della scienza nell’affrontare le malattie, pur sempre in agguato, come purtroppo insegna l’esperienza della pandemia in cui tuttora siamo immersi. Tra le armi messe a disposizione dalla ricerca scientifica, ci sono, non da ora, i vaccini. Chi ha una certa età, come il sottoscritto, ricorda cosa fu in Italia e nel mondo la poliomielite, e come essa fu sconfitta, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, grazie ai due preparati messi a punto prima da Jonas Salk e poi da Albert Sabin.
Si era all’epoca della guerra fredda. Allora ognuno sapeva (come nel caso della corsa alla cosiddetta conquista dello spazio) che c’era un interesse statunitense, in chiave anti-Unione sovietica, a mostrarsi all’avanguardia in tutto – e quindi nella lotta contro la polio, perseguendo così un’influenza planetaria che doveva esplicarsi non solo mediante una superiorità negli armamenti, ma anche con la dimostrazione di un contributo determinante alla crescita dell’Isu, appunto. Si poteva trovare a quel tempo chi polemizzava contro gli Stati Uniti, e secondariamente contro l’uso politico che del vaccino veniva fatto, però non qualcuno che ne mettesse in dubbio l’efficacia. E neppure qualcuno che arrivasse a pensare che la polio (che proviene essa stessa da un virus) fosse stata messa in circolazione ad arte dall’imperialismo americano.
Come mai oggi, invece, ci sono dei “no vax” (non quelli che, per ragioni personali, hanno timore di farsi “bucare”, per carità, diciamo i “no vax” politici) che sostengono che la pandemia sia soltanto una scusa delle multinazionali farmaceutiche, per lo più statunitensi, per “vaccinare il popolo”? Le complesse, in parte ancora oscure, cause del “salto di specie” che ha reso possibile il passaggio di un virus dall’animale all’uomo, vengono in questo modo ridotte a una sorta di grande imbroglio su scala mondiale escogitato da certuni per fare quattrini.
È una spiegazione troppo facile per rendersi comprensibile il mondo, quella che circola in una parte dei “no vax”. Il fatto che non ci siano prove di ciò che essi asseriscono, per loro non significa granché: le prove, infatti, sono state fatte sparire dall’organizzazione globale dell’imbroglio. Di più: proprio il fatto che non ci siano prove sta a dimostrare come il complotto abbia funzionato alla perfezione.
Domanda: non fu così per gli ebrei e il loro piano di dominio del mondo attraverso una rete planetaria di infiltrazione? “I protocolli dei savi di Sion”, fabbricati dalla polizia segreta zarista agli inizi del Novecento, furono quella prova contro gli ebrei, che oggi manca, per poter discorrere a fondo del grande complotto ordito dalle multinazionali dei farmaci. Ma è probabile che, prima o poi, i più accesi “no vax” riusciranno a tirare fuori qualcosa del genere anche riguardo ai vaccini. Quando si parla della funzione di Internet, della “post-verità”, eccetera, spesso ci si dimentica di dire che i mezzi di comunicazione messi a disposizione dalla tecnologia odierna non hanno fatto altro che dare nuova linfa a qualcosa di molto vecchio: il complottismo come spiegazione di fenomeni complessi. E come fabbricazione del capro espiatorio.
È facile, molto facile, prendersela con qualcuno o qualcosa – che siano gli ebrei o le multinazionali dei farmaci – quando si tratta di farsi una ragione di questioni difficilmente comprensibili, che siano le cause di una crisi finanziaria o sanitaria. Le cause della pandemia non sono soltanto naturali, sono anche e soprattutto sociali. Già il fatto che il virus abbia colpito in talune zone più che altrove, o che sia stato più mortale in Italia anziché in Germania (poniamo), è spiegabile mediante analisi che riguardano le differenze tra i sistemi sanitari, il numero di posti letto in terapia intensiva, la presenza o meno di una rete di medicina territoriale in grado di affrontare la malattia ai suoi primi sintomi, e così via. Si tratta comunque di analisi specifiche piuttosto complesse, non alla immediata portata di tutti.
Per degli imprenditori politici della paura e del disagio sociale (specialmente se implicati nel bilancio fallimentare di un’organizzazione sanitaria, come in Lombardia) è facile soffiare sul fuoco del complottismo, magari senza neppure abbracciarlo apertamente (come invece fanno i gruppi dichiaratamente neofascisti), ma comunque dandogli spazio. D’altro canto, il neo-poujadismo riguardante attività economiche effettivamente danneggiate dalle chiusure imposte dalla crisi sanitaria, è una risorsa politica adatta a drenare consensi. Neo-poujadismo significa infatti dare espressione alle esigenze e alle proteste di categorie come quelle dei commercianti, proponendo la riapertura incontrollata di tutte le attività e una diminuzione delle tasse. Sono queste strategie e tattiche pressoché ovvie, tipiche di un’estrema destra all’attacco.
A preoccuparci, in un certo senso di più, è un altro aspetto della faccenda. All’interno di un deficit di razionalità politica, di cui non possiamo che prendere atto, una parte dei critici del sistema va a braccetto con una destra più o meno estrema, rivendicando una “libertà” intesa individualisticamente, e scordandosi di far poggiare le proprie accuse su un’analisi dei fatti. È vero che la medicina, la difesa della salute, sono esse stesse sottoposte al profitto; ed è vero che bisogna cercare di sottrarre alle aziende farmaceutiche private questo monopolio. È perfino vero che possono esserci – non sempre, in taluni casi – delle terapie che non vengono adeguatamente studiate e messe a punto perché poco remunerative nel senso dell’affare economico.
Ma queste critiche, e altre del medesimo tenore, non dovrebbero far dimenticare che se la polio e altre terribili malattie sono state sconfitte negli scorsi decenni, ciò è avvenuto in virtù dei vaccini; che se la durata della vita media sul pianeta (sia pure in maniera non uniforme) è aumentata, ciò è stato dovuto anche all’azione dei vaccini. Dunque a che pro prendersela con questi preparati? E come dimenticare che proprio mediante la obbligatorietà delle vaccinazioni – per poter frequentare la scuola, per esempio – una campagna vaccinale può raggiungere dei risultati in momenti di estrema gravità? Come appunto fu, ancora una volta, nel caso della polio.
Post scriptum – Arriva la notizia del suicidio del dottor Giuseppe De Donno che nella primavera 2020 – in Lombardia, nel pieno della crisi sanitaria – aveva sperimentato una terapia anti-Covid basata sul “plasma iperimmune” tratto dai pazienti convalescenti e utilizzato nei casi più gravi della malattia. La terapia non era stata tuttavia convalidata dalla comunità scientifica che, come sappiamo, si attiene a procedure e protocolli molto stringenti. De Donno, suo malgrado, era stato “adottato” dai “no vax”, sostenitori di qualsiasi metodo secondo loro alternativo ai vaccini; laddove, nel caso in questione, si tratterebbe tutt’al più di integrarli, somministrando il plasma a chi, già colpito dall’infezione, sia destinato con alta probabilità a finire in terapia intensiva. Naturalmente, non essendo un esperto, non ho alcun elemento per esprimere un parere a favore o contro l’efficacia della terapia. Faccio però osservare una cosa: coloro che chiedono di concentrarsi sulle cure della malattia, mettendo da parte la campagna vaccinale, sono sulla stessa lunghezza d’onda di quelli che, soprattutto all’inizio della pandemia, inseguivano la famosa “immunità di gregge”: facciamo ammalare il più possibile, curiamo i pazienti, e prima o poi la pandemia si esaurirà da sola. Era una strategia non solo sbagliata ma criminale: quante sofferenze e quante morti in più sarebbe costata?