È molto deciso il sindaco Rinaldo Melucci: “A Taranto più nessuno si strappa i capelli per la sorte dello stabilimento siderurgico, la città si sta rapidamente emancipando da quel ricatto occupazionale e culturale, siamo interessati esclusivamente alla traiettoria della completa decarbonizzazione. Oggi la responsabilità è tutta del governo, e noi siamo pronti a collaborare su un tavolo dove la salute sia il primo obiettivo. In mancanza di questo scenario coraggioso, prevediamo una irreversibile implosione del sistema, speriamo senza incidenti”.
Siamo in un cul de sac, a Taranto. E il tempo scorre velocemente senza che accada nulla di importante. Nessun segnale arriva dalla direzione di Acciaierie d’Italia, nessuno anche da palazzo Chigi, se non l’impegno che entro un mese sarà definito il nuovo piano industriale. Nessun abboccamento con i sindacati per concordare un piano soft di trasformazione della più grande acciaieria d’Europa a ciclo integrale e una fabbrica compatibile con l’ambiente e la salute. Mentre i sindacati si dichiarano soddisfatti dello sciopero di ventiquattr’ore dei lavoratori del gruppo ex Ilva, proprio domani inizia a Napoli il G20 su energia e clima. Il convitato di pietra è proprio Acciaierie d’Italia, e il ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani, è consapevole che il tema dell’accelerazione nel processo di decarbonizzazione netta è un tema fortemente divisivo.
Difficile, dunque, che si troverà la quadra a Napoli. Anche se questo non dovrebbe impedire accelerazioni di processi di decarbonizzazione per Taranto. Ma sul punto si annotano incertezze e titubanze.
Prima questione, per alcuni insormontabile, sono i costi e i tempi dell’operazione. Nel progetto possibile, che tiene conto delle mediazioni necessarie e delle compatibilità, per una lunga fase iniziale, fino a dieci anni, Taranto deve strutturarsi per avere una produzione con fonti energetiche miste. Questo significa, anche carbone. E Taranto e gli ambientalisti sono disposti a sacrificarsi per un altro decennio? E poi andranno utilizzati forni elettrici e a idrogeno. Impianti con modalità e tecnologie diverse. I forni elettrici potranno andare a regime in tre-quattro anni, quelli con alimentazione a idrogeno fino a otto-dieci anni.
E i costi si annunciano proibitivi. Spiega Giuseppe Romano, Fiom-Cgil di Taranto: “A oggi, purtroppo, siamo fermi al piano industriale di gennaio scorso, il forno elettrico è previsto che parta non prima del 2024 in ciclo ibrido. Poi sull’idrogeno si vedrà. La questione vera, oltre alla compatibilità ambientale e sanitaria, è come si tiene l’occupazione attuale che prevede per il ciclo integrale l’equazione un milione di acciaio prodotto e mille dipendenti? Già col forno elettrico il rapporto scende a un milione di acciaio e 350-400 lavoratori? L’unica cosa vera a oggi è lo scontro tra i soci, senza esclusione di colpi”.
Dunque grande incertezza in prospettiva, per l’Ilva. Le reticenze e i silenzi di palazzo Chigi nascondono questa grossa difficoltà di concentrare flussi notevoli di capitali e risorse umane in un progetto di lungo periodo, che comunque non risolve i nodi della quotidianità, che non mette al riparo la fabbrica da incursioni della magistratura tarantina a fronte di nuove e documentate denunce di violazioni delle norme e degli accordi per una trasformazione degli impianti.
Prendiamo per esempio il tema spinoso della Cokeria 12, che il ministro della trasformazione ecologica Cingolani ha decretato che va chiusa perché tutte le prescrizioni imposte non sono state realizzate. Dice Alessandro Marescotti, portavoce di Peacelink, che l’azienda ha fatto finta di nulla, e “Cokeria 12 continua a lavorare”.
Si ha l’impressione che i sindacati alzino il tiro delle richieste in attesa che, a fine mese, si insedi il nuovo consiglio di amministrazione che dovrebbe vedere Franco Barnabé nuovo presidente. La parola chiave dello sciopero di ventiquattr’ore del gruppo dei lavoratori ex Ilva, ieri, è stata chiara: “Il tempo è scaduto”. “Non è accettabile il rinvio della vertenza sul futuro ambientale, occupazionale e industriale dell’Ilva”. Le dichiarazioni di delegati e sindacalisti si intrecciano, formando un coro di “non è possibile”: “Non è possibile che il piano industriale che va cambiato non sia mai stato discusso con ArcelorMittal e Invitalia”. “È inaccettabile l’assenza di un piano di manutenzione degli impianti”. “Dove sono i tempi di realizzazione del piano ambientale, i tempi delle opere per la messa a norma degli impianti?”.
Insomma, quello che per i sindacati e i lavoratori è inaccettabile, è l’indeterminatezza di ogni piano legato al futuro. Fa irritare l’atteggiamento da padrone delle ferriere della direzione aziendale con la “sua inaccettabile gestione inappropriata della cassa integrazione al 52%; così i lavoratori sono alla fame”. Il ministro Giorgetti rassicura: “Tra un mese tutto sarà più chiaro, avremo il piano industriale”. Si tratta solo di capire se i lavoratori e i sindacati gli crederanno.