Berlino è una città di affitti. Quasi l’85% dei berlinesi vive in case che non sono di proprietà. E non si tratta di una anomalia, dato che anche nelle altre grandi città tedesche l’affitto sopravanza di gran lungo la proprietà. A Berlino, però, per una serie di ragioni storiche complesse, questo rapporto è particolarmente sbilanciato. Accenno solo alla questione più recente in ordine di tempo, quella della “restituzione” ai privati di una parte del patrimonio pubblico della ex Berlino-est, la cosiddetta Eigentumsfrage, un patrimonio di 180.000 alloggi dichiarati di proprietà ignota e rimasti in cerca di padrone. La questione è stata sbrigativamente risolta dal governo post-riunificazione con la restituzione degli appartamenti agli antichi proprietari, individuati attraverso il catasto del 1939. Il fatto che gli eredi non sempre fossero rintracciabili, o fossero spesso disinteressati al possesso di edifici in cattive condizioni e comunque necessitanti energica manutenzione, ha dischiuso un’opportunità storica alla grande proprietà immobiliare, che si è trovata nella condizione di potere operare massicce acquisizioni a prezzi bassissimi, raggiungendo una concentrazione di alloggi in poche mani senza pari nella storia della città. Risiedono qui le premesse di un braccio di ferro sulla questione degli affitti che si è fatto più aspro in tempi di pandemia.
I vistosi aumenti che hanno caratterizzato negli ultimi anni il mercato dell’affitto in Germania sono stati sentiti con particolare intensità nella capitale. A Berlino, infatti, i prezzi sono raddoppiati negli ultimi dieci anni, anche se in linea di massima continuano a essere più bassi che in altre capitali europee: rispetto a Parigi si stima che siano tre volte inferiori. Va anche detto che Berlino è cresciuta notevolmente quanto a popolazione negli ultimi tempi e si è andata creando una forte domanda di case, soprattutto da parte di giovani da poco arrivati.
Nel gennaio 2020, anche a seguito di forti mobilitazioni popolari, dato che i movimenti degli inquilini sono molto combattivi in città, l’amministrazione (una coalizione rosso-verde) del Land ha introdotto una misura radicale di congelamento degli affitti, il Mietendeckel, destinata teoricamente a durare cinque anni, fino al 2025. Il provvedimento prevedeva che i costi di manutenzione e ammodernamento non potessero gravare sugli affittuari, e che gli aumenti non potessero andare oltre un massimale di 9,80 euro a metro quadro a seconda della categoria degli alloggi. In sostanza gli aumenti non potevano superare complessivamente il 20% dell’affitto di partenza. Oltre questa percentuale, gli affittuari potevano appellarsi alla misura introdotta e richiedere una riduzione. Il provvedimento era concepito in maniera volutamente ampia, tanto da interessare la stragrande maggioranza degli alloggi nella capitale.
Nel marzo di questo anno, però, un pronunciamento della Corte costituzionale ha dichiarato che il blocco degli affitti non si concilia con la Costituzione e lo ha annullato. Tra le motivazioni di questa decisione c’è il fatto che già esiste un meccanismo di protezione e di sostegno economico all’affitto (Sicher-Wohnen-Hilfe) per le famiglie “povere” (è la Germania, ricordiamocelo!) che hanno un reddito complessivo inferiore ai 2800 euro mensili.
La decisione della Corte costituzionale ha scatenato la reazione delle associazioni degli inquilini che ritengono insufficiente e limitata da una serie di vincoli burocratici la protezione assicurata dal Sicher-Wohnen-Hilfe. Anche perché, non appena la sentenza della Corte costituzionale ha avuto effetto legale, c’è stata una immediata impennata dei prezzi. A maggio, a Berlino decine di migliaia di persone hanno protestato, e altre manifestazioni di sostegno hanno avuto luogo nelle altre principali città tedesche.
Gli slogan dei dimostranti riprendevano non solo la questione del blocco degli affitti, ma insistevano anche sulla necessità di salvaguardare il patrimonio pubblico contro gli “squali delle immobiliari”, ed è stata avviata una raccolta di firme per l’esproprio degli alloggi di proprietà delle grandi compagnie immobiliari, tra cui quelle che hanno gonfiato il proprio parco alloggi speculando sull’ex-Est e hanno approfittato di condizioni di semi-monopolio per aumentare i prezzi, in particolare Deutsche Wohnen et Vonovia. Il referendum chiede l’esproprio per tutte le immobiliari che posseggono più di tremila appartamenti in città e ha già raccolto moltissime adesioni.
L’amministrazione, presa in contropiede dalla decisione della Corte costituzionale, sta studiando altre vie per calmierare gli affitti, tra cui il recupero di una parte del patrimonio pubblico in cattive condizioni e per questo inutilizzato, e la costruzione di nuovi alloggi popolari. Anche perché Berlino, “povera ma sexy” come ha dichiarato il sindaco socialdemocratico, è una città di redditi non certo altissimi, e di giovani impigliati nella spirale dei lavoretti e deimini-job. L’ambizioso progetto di farne la “capitale europea” pare nel complesso naufragato, e tra le metropoli europee appare certo quella meno “globalizzata”, un luogo peculiare ancora sospeso tra una dimensione di rilassato provincialismo e un possibile destino di global city.
La partita decisiva sul fronte degli affitti si giocherà probabilmente nell’autunno prossimo: prima delle elezioni per il cancellierato, sono previste già in settembre grandi manifestazioni a Berlino e in tutto il paese sulla questione, che potrebbe diventare uno dei grandi punti all’ordine del giorno nell’agenda politica della ormai prossima campagna elettorale.