Avevo lasciato Palermo quella maledetta domenica mattina, il 19 luglio del 1992. Avevo intervistato per “il manifesto”, il sabato, padre Ennio Pintacuda, teorico dello “scongelamento” dei blocchi politici e sociali e ispiratore della Rete, il raggruppamento politico di Leoluca Orlando. In realtà, la “primavera” palermitana, già da alcuni anni, aveva cominciato a mettere in crisi il “sistema Palermo”, o perlomeno a denunciarlo. E Palermo aveva già pianto i suoi figli: Pio La Torre, Rocco Chinnici, Ninni Cassarà, Libero Grassi. Mentre la palude mafiosa aveva portato l’attacco al “cuore” delle istituzioni uccidendo, nel 1982, il generale Dalla Chiesa e sua moglie.
Già si combatteva, dunque, a Palermo, e ben prima delle stragi Falcone e Borsellino. Pezzi di società civile avevano cominciato a ribellarsi ai corleonesi e ai loro alleati politici. E oggi che ricorre il ventinovesimo anniversario della strage di Paolo Borsellino e della sua scorta, di quel periodo rimane ben poco, se non l’interrogarsi sul ruolo dei servizi segreti in via D’Amelio. Come se il tentativo golpista e stragista dei corleonesi, che avevano dichiarato guerra allo Stato per rinegoziare la coabitazione con nuovi interlocutori politici, fosse cancellato dal sospetto che quella strage fosse firmata dai nostri apparati deviati.
Questo anniversario passerà forse alla storia come quello in cui si è celebrato il “depistaggio”. Un variegato fronte “antimafia” – dai magistrati o ex magistrati Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia, a giornalisti (Claudio Fava, Attilio Bolzoni, Saverio Lodato) e a parenti di vittime di mafia, come Salvatore Borsellino – ha bollato infatti come depistaggio il libro di Michele Santoro (scritto con la mia collaborazione), Nient’altro che la verità (editore Marsilio). Un libro che propone una rilettura critica degli ultimi trent’anni di vita della mafia e dell’antimafia, attraverso la testimonianza di un killer di Cosa nostra catanese, Maurizio Avola.
Per quasi due anni – dall’aprile del 2019 fino a quando il libro non è andato in stampa – ho frequentato Avola, un sicario che si è autoaccusato di una ottantina di omicidi. Ho raccolto i suoi ricordi, spesso insieme a Michele Santoro. E ho trovato coerente il suo racconto. Naturalmente spetterà ai magistrati inquirenti verificare gli aspetti giudiziari delle novità che Avola ha voluto svelare – come la strage di via D’Amelio e il ruolo della Cosa nostra americana nelle stragi.
L’ira di una certa antimafia, che ha vissuto in questi ultimi decenni chiamando in causa i servizi segreti, si è scatenata sostanzialmente su una precisa affermazione di Avola. Riassumo: Gaspare Spatuzza, che diventerà uomo d’onore della famiglia Brancaccio di Cosa nostra nel 1995, è l’autore del furto della Fiat 126 che sarà imbottita di tritolo e parcheggiata davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino, quel 18 luglio del 1992, il giorno prima che fosse fatta esplodere uccidendo Borsellino e la sua scorta. Quando nel 2008 si pente, Spatuzza, con le sue dichiarazioni, svela il depistaggio di Vincenzo Scarantino, il falso pentito manovrato da alcuni investigatori, che aveva chiamato in causa altri presunti autori della strage, in realtà innocenti.
Spatuzza racconta di aver consegnato la 126 nei pressi di un garage a poche centinaia di metri da via D’Amelio: “C’era un signore vestito elegante che non conoscevo e che non rivedrò più, che probabilmente era un uomo dei servizi”. Siamo, ripeto, nel 2008, sedici anni dopo la strage. E una volta svelato il depistaggio Scarantino, la tesi dei servizi deviati comincia a prendere corpo e a rafforzarsi.
Maurizio Avola racconta di aver imbottito la 126 di tritolo, insieme con due palermitani, e di aver dato il via libera a Giuseppe Graviano per premere il telecomando. E aggiunge: “Quel signore elegante che prende in consegna l’auto da Spatuzza era Aldo Ercolano, vice-rappresentante della famiglia Santapaola di Catania. Lo dico essendone certo, perché anch’io mi trovavo nel garage”.
Le prime verifiche delle dichiarazioni di Avola da parte della Procura di Caltanissetta non hanno ancora portato a un esito positivo. Ma proprio in queste ore la Procura nissena sta valutando il contenuto di una conversazione registrata in carcere tra Totò Riina e il suo compagno di ora d’aria. In quella conversazione, Riina svela che anche Matteo Messina Denaro si trovava in via D’Amelio. Proprio così come ha raccontato, al sottoscritto e a Michele Santoro, Maurizio Avola.