La sede scelta da Renzi per il grande annuncio è quella del convegno dei giovani di Confindustria del 9 luglio scorso: “Nel 2022 lancerò un referendum per l’abrogazione del reddito di cittadinanza”. Due giorni dopo compare un suo editoriale sul “Sole24Ore”, il quotidiano di Viale dell’Astronomia, in cui argomenta: “La scelta di introdurre il reddito di cittadinanza non è stato un tentativo di combattere la povertà, ma di combattere la voglia di fare, specie nel Mezzogiorno. Non è un caso che oggi molti commercianti, ristoratori, albergatori fatichino a trovare personale: col sussidio si prende quasi la stessa cifra e non si fa fatica” (parliamo di circa cinquecento euro al mese – NdR). E ritorna il tormentone del canapè: “Quei denari vanno dati come incentivo al lavoro, non come incentivo a restare a casa sul divano”. Musica per le orecchie di Bonomi.
Cosa turba il nostro? Probabilmente il fatto che l’impennata degli italiani in povertà assoluta, 5,6 milioni secondo l’lstat, raggruppati in oltre due milioni di famiglie, giustificherebbe un rafforzamento, anche pluriennale, del reddito di cittadinanza. Intanto la previsione di spesa per il 2021 è salita da 7,4 a 8,6 miliardi. Anche il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha evidenziato che, con il Covid, il bacino dei potenziali beneficiari aumenterà del 20%. Percentuale destinata a salire per effetto della fine del blocco dei licenziamenti. Per questo una parte consistente della maggioranza spinge per rifinanziare il provvedimento, con la legge di bilancio 2022, di almeno uno-due miliardi. Ricordiamo che le risorse per il reddito di cittadinanza erano già state rafforzate con quattro miliardi aggiuntivi, da qui al 2029, dall’ultima legge di bilancio e con un ulteriore miliardo previsto dal decreto Sostegni.
Non sia mai! Insorge Barilla junior, cioè Guido figlio di Pietro, dirigente dell’azienda di famiglia da quando aveva ventott’anni, che su “La Stampa” regala perle di saggezza: “Non sedetevi su facili situazioni, abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco”, anche “cercando lavori poco remunerati”. Stia tranquillo, le cifre parlano chiaro: già oggi il 32% dei dipendenti privati (agricoltura esclusa) ha un salario medio inferiore ai diecimila euro lordi. Nelle qualifiche più basse è occupato il 34% dei lavoratori contro una media del 27% nei paesi dell’Unione europea.
Il “lavoro povero” e i Progetti di utilità collettiva (Puc)
Il primo equivoco da chiarire è quello del reddito di cittadinanza come strumento per creare occupazione. Come sostiene Renzi: “I poveri sono cresciuti, i posti di lavoro diminuiti”: qualcuno lo informi che in mezzo c’è stata una pandemia. E come ha dichiarato Nunzia Catalfo, ex-ministra del Lavoro, è difficile accettare lezioni da chi ha precarizzato il mercato del lavoro approvando la legge Biagi, il Jobs act, e sterilizzando l’articolo 18. Aumentare la flessibilità non aiuta l’economia ed è il contrario di quanto si dovrebbe fare ora.
Siamo seri, il lavoro si crea se ci sono investimenti e se la domanda tira. Servono inoltre politiche attive e percorsi di formazione, mentre i Centri per l’impiego sono del tutto inefficienti. Oggi i percettori del reddito di cittadinanza devono accettare offerte se il contratto è di minimo tre mesi e la paga di almeno il 20% superiore all’importo massimo (quindi all’inaudita cifra di 858 euro al mese).
Nel turismo e nella ristorazione, tipici lavori stagionali, spesso il basso numero di ore dichiarate nasconde in realtà turni full time. In ogni caso, tra aprile 2019 e ottobre 2020, oltre 48mila percettori hanno lavorato nelle attività alberghiere e in quelle di ristorazione, altri 44mila hanno avuto contratti nell’agricoltura. Ma non con stipendi da fame.
Ci sono però due aspetti che riguardano il rapporto tra il reddito di cittadinanza e il lavoro sui quali si può intervenire, sempre tenendo conto che i due terzi dei beneficiari del reddito, per un motivo o per un altro, non sono occupabili: minori (1.350.000), disabili (450mila), persone con difficoltà fisiche o psichiche non percettori di pensioni di invalidità, oltre a circa duecentomila percettori di pensione di cittadinanza.
Il primo è il tema del “lavoro povero”, legato a sempre più frequenti occupazioni saltuarie, occasionali o part time.
Oggi, in Italia, abbiamo 2,7 milioni di disoccupati, più gli inattivi e i part time involontari. La domanda resta troppo debole per assorbire questo esercito di forza-lavoro. Sono le imprese a richiedere basse qualifiche, e chi cerca profili specializzati fa fatica, perché i salari all’estero sono ben più appetibili. Si tende a usare strumenti molto flessibili. Negli ultimi anni, sono cresciuti i tirocini che permettono di retribuire i neo-assunti con poche centinaia di euro al mese. Tra il 2014 e il 2017 abbiamo avuto 1263 milioni di stage extra-curricolari, mentre i contratti di apprendistato – ben più remunerati e tutelati – sono stati solo 697.366.
L’economista Marcello Minenna, direttore generale dell’Agenzia delle dogane e monopoli, affronta il tema della “carenza di lavoratori stagionali (…) nei settori del turismo e della ristorazione”, sottolineando che “deriva in parte dalla scarsa attrattività degli impieghi stagionali, la cui precarietà spesso si accompagna a retribuzioni inadeguate, mansioni pesanti e orari insostenibili”, ma anche dalla “paura di perdere il reddito di cittadinanza. Infatti, salvo poche eccezioni, accettare una proposta di lavoro stagionale comporta la decurtazione o l’azzeramento del sussidio statale”.
Per correggere questa “distorsione rispetto all’obiettivo di favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro”, Minenna propone di “consentire la cumulabilità dell’assegno di cittadinanza con redditi da lavoro stagionale, prevedendo al contempo la perdita dell’assegno a fronte del rifiuto di un certo numero di proposte d’impiego in sedi non eccessivamente distanti dal luogo di residenza. Così chi riceve il reddito di cittadinanza sarebbe spinto ad accettare impieghi stagionali e, magari, anche a metterne in sequenza più di uno nei vari periodi dell’anno per aumentare le proprie entrate con la serenità di poter comunque contare su un reddito minimo garantito”. Importanti progressi vi sarebbero anche “nel contrasto al lavoro sommerso che oggi viene spesso preferito a quello regolare proprio per conservare il reddito di cittadinanza. In prima approssimazione la regolarizzazione di questi lavoratori potrebbe incrementare il Pil di 3-5 miliardi di euro l’anno”.
Il secondo aspetto concerne i Comuni che avrebbero dovuto utilizzare i percettori del reddito per progetti di utilità pubblica, i Puc. Ma quasi nessuna amministrazione locale ha avviato un tale percorso. Il perché lo spiega Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. La partecipazione dei beneficiari del reddito di cittadinanza ai Progetti utili alla collettività (Puc) comporta in ogni caso un significativo carico di lavoro per i servizi sociali delle amministrazioni: programmazione, costante raccordo tra i nuclei familiari, i Centri per l’impiego e il Terzo settore, predisposizione di bandi, stipula di convenzioni e assicurazioni, formazione, tutoraggio, acquisto di dispositivi di protezione, compilazione di modulistica e monitoraggio. Questo richiede che i Comuni siano dotati di personale e fondi dedicati.
Infine, va sottolineato come la partecipazione ai Puc – del tutto priva di componenti formative e di una qualunque prospettiva di inclusione lavorativa – non sia di alcun aiuto per evitare la cronicizzazione della condizione di fragilità dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Si tratta, pertanto, di prevedere l’attivazione di percorsi formativi che aumentino la possibilità di ricollocazione nel mondo del lavoro almeno di una parte dei destinatari del reddito coinvolti nei progetti utili.
La lotta alla povertà e i difetti del reddito di cittadinanza
Le famiglie che hanno beneficiato di una forma di sostegno economico a contrasto della povertà comprendono circa quattro milioni di persone. Tra reddito, pensione di cittadinanza e reddito di emergenza sono coinvolti oltre 1,7 milioni di nuclei familiari. I dati dell’Osservatorio Inps, relativi a maggio 2021, certificano una forte crescita del ricorso al mix di strumenti anti-povertà. A maggio 2021, i nuclei percettori di reddito di cittadinanza sono stati 1,18 milioni e hanno ricevuto in media 583 euro, mentre i beneficiari di pensioni di cittadinanza sono stati 125mila per un importo medio di 263 euro. Rispetto a maggio 2020, si registra un aumento tendenziale del 16% dei nuclei beneficiari, e un aumento del 2% dell’importo medio. Si conferma una diffusione ampia nel Sud e nelle Isole, con il 63% del totale dei nuclei familiari beneficiari.
Il reddito viene descritto non solo come efficace, ancora migliorabile, ma strettamente necessario vista la debolezza e la sterilità degli strumenti anti-povertà messi in campo negli anni precedenti, quando le famiglie indigenti aumentavano di numero ma non ricevevano aiuti statali, dal primo rapporto annuale Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), che venerdì 16 luglio sarà presentato alla Camera dal presidente Sebastiano Fadda. Il “Fatto Quotidiano” del 10 luglio scorso ne ha anticipato alcuni passaggi.
In Italia, i trasferimenti sociali (al netto delle pensioni) hanno storicamente avuto un’efficacia dimezzata rispetto a quelli di Francia, Regno Unito e Germania, sia sull’incidenza sia sull’intensità della povertà. “I due indicatori – si legge – risentono, nella fase che ha preceduto l’avvio delle due misure nazionali (reddito di inclusione e reddito di cittadinanza – NdR), della mancanza di uno schema di reddito minimo”. “Nel 2013 – aggiunge – quasi metà delle famiglie in povertà assoluta non riceveva alcun tipo di prestazione sociale di tipo monetario; ciò spiega, almeno in parte, l’esigenza (sociale) e l’opportunità (politica) che il contrasto alla povertà entrasse nell’agenda politica”. “Il 2019 – ricorda l’Istituto – è stato il primo anno dalla crisi economico-finanziaria del 2008-2014 in cui l’indicatore di povertà è diminuito rispetto all’anno precedente (dal 7% al 6,4%)”.
Il reddito di inclusione – approvato dal governo Gentiloni a fine legislatura – aveva raggiunto in quindici mesi 1,4 milioni di persone; il reddito di cittadinanza, nell’anno della pandemia, ha raddoppiato questo target, andando a 2,8 milioni di individui.
Questo non significa che il reddito non abbia difetti. Ma è ovvio che per intervenire su questi bisognerebbe fare l’esatto opposto di quanto chiedono i critici, e cioè potenziarlo, non abolirlo.
Oltre a quanto già detto, per quanto concerne il suo legame con le attività lavorative, i difetti del reddito di cittadinanza per il contrasto alla povertà, che necessitano di interventi correttivi, sono essenzialmente quattro: le norme sulle famiglie numerose, su quelle con disabili, e le regole per gli stranieri extra-comunitari e per i senza fissa dimora.
Il beneficio economico del reddito è costituito da un’integrazione del reddito familiare fino a una soglia, su base annua, di 6000 euro, moltiplicata, in caso di nuclei con più di un componente, secondo una determinata scala di equivalenza. La criticità della misura risiede proprio nella scala di equivalenza, la quale prevede un incremento dello 0,4 per ogni ulteriore componente di età maggiore di anni 18 e di 0,2 per ogni ulteriore componente minorenne, secondo una logica che considera meno costoso un minore a carico di un adulto. Secondo i dati del quarto rapporto Osservatorio Nazionale Federconsumatori, un minore a carico di una famiglia a basso reddito (il rapporto fa riferimento al parametro minimo di 22.500 euro annui) costa 117.400 euro totali nei primi 18 anni di vita, circa 6.500 euro annui. Facendo una proporzione prendendo in considerazione la soglia massima di Isee per accedere al reddito di cittadinanza (9.360 euro) risulta che una famiglia, con tale soglia di reddito, spende annualmente circa 2.713 euro per un minore a carico. Da tali dati e dal Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020 della Corte dei conti si evince che il programma svantaggia in termini relativi le famiglie numerose.
Andrebbe, dunque, incrementato il sostegno economico per le famiglie in povertà con figli, sostituendo l’attuale scala di equivalenza con quella dell’Isee ed eliminando il tetto per le famiglie numerose (o innalzandolo sensibilmente).
Andrebbe anche riequilibrata la scala di equivalenza a favore dei nuclei con disabili, che allo stato dispongono solo di una piccola e insufficiente maggiorazione.
Nonostante gli stranieri extracomunitari siano circa un terzo del totale delle persone in povertà assoluta, la loro quota tra i beneficiari del reddito di cittadinanza non supera il 6%. Va ridotto il numero degli anni di residenza necessari per gli stranieri per accedere al reddito (attualmente dieci anni), e ampliata in proporzione la dotazione della misura.
A questo proposito, lo scorso 19 novembre, Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), Avvocati per Niente Onlus, Naga (organizzazione di volontariato per l’assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti) e “L’Altro diritto” (organizzazione di volontariato) hanno depositato una denuncia alla Commissione europea chiedendo che Bruxelles apra una procedura di infrazione contro l’Italia in relazione a tale requisito.
Infine, le persone che dispongono di una “residenza fittizia” – possibilità peraltro istituita solo da una piccola percentuale di Comuni – non possono comunque godere del contributo all’affitto (280 euro al mese) riservato ai beneficiari che hanno un contratto di locazione in essere. Andrebbero ridotti i vincoli legati alla residenza che attualmente condizionano l’accesso al reddito di cittadinanza; e ai “senza fissa dimora” andrebbe concessa una piccola quota aggiuntiva come “dote abitativa”.
Il Comitato scientifico e la pigrizia di Renzi
Il 10 marzo scorso, il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, ha istituito il Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno. L’obiettivo è valutare come abbia funzionato finora la misura e indicare quali decisioni assumere per migliorarne l’impatto. C’è da augurarsi che non si risolva, dopo lo sblocco dei licenziamenti, in un’ennesima marcia indietro di Pd e 5 Stelle per quanto concerne le misure di contrasto alla povertà.
Ricordiamo come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea di Nizza, divenuta vincolante con il trattato di Lisbona del 2009, stabilisce che “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e abitativa volto a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti”. Si trattadi un sostegno diretto a ogni cittadino che voglia partecipare pienamente alla vita della comunità a cui appartiene. Il destinatario, quindi, è il singolo, preso in considerazione come individuo e non solo come lavoratore escluso dal mercato. Da tempo l’Unione ha individuato nel reddito minimo garantito una policy da integrare ad altre politiche occupazionali per sconfiggere povertà ed emarginazione.
Ma per Renzi “il reddito di cittadinanza inquina la vita dei giovani (e che) questo permetta di rifiutare la fatica dell’impegno in nome della pigrizia del sussidio è insopportabile”. Quella che diventa veramente insopportabile è la pigrizia intellettuale di chi non ha studiato e non ha appreso nulla dalle lezioni della crisi del 2008, dovuta alle politiche neoliberiste, le cui ricette si ripropongono oggi con una testardaggine degna di miglior causa.