Finiscono gli anni Novanta, in Europa si spengono le guerre dei Balcani, la parola Jugoslavia diventa un tabù. La riunificazione tedesca è solida e il progetto di valuta unica, a controllo sbilanciato verso Berlino, sta per attuarsi. In Oriente e in Africa il fanatismo islamico, sostenuto da anni, servito a contrastare il socialismo e la decolonizzazione, è ancora vivo. Negli Usa il figlio di un affarista socio dei nazisti, già al vertice della Cia e poi presidente, briga perché suo figlio abbia la stessa presidenza. Ci riesce: Bush junior perde le elezioni ma, pur in un contestatissimo conteggio dei voti, va alla Casa Bianca. Per la prima volta, padre e figlio presidenti: assaggio epocale di una spregiudicata concentrazione di potere e di ricchezza.
La prassi dei vertici fra potenti è in uso da anni, però qualcosa ha cominciato a scricchiolare. Quel che resta del movimento socialista e anticoloniale, con uno sguardo ai paesi emergenti e all’America latina affrancata dalle dittature, si salda alla consapevolezza ambientalista, alle lotte dei lavoratori, al malcontento degli esclusi e al bisogno di libertà e giustizia. Ecco le contestazioni a Seattle ed ecco il Forum sociale di Porto Alegre, capaci di mettere in discussione i modelli economici e di consumo.
Si parla di globalizzazione e del contrario, global e noglobal, ma la questione è più complessa. Il capitalismo non rinuncia alle protezioni statali, neanche quando si dice liberista; piuttosto scavalca autorità statali locali cercando la protezione di poteri esteri (militari, politici, diplomatici), ancora statali o sovrastatali. La contrapposizione liberismo-statalismo è solo di facciata, i modelli di sfruttamento hanno tutte le sfumature, centrifugate dall’estensione dei commerci e dalle delocalizzazioni. L’alta tecnologia, poi, espone le risorse naturali a nuove rapine senza smettere quelle in uso: il Ventunesimo secolo comincia con l’accaparramento di materie per produzioni innovative, ma inquina come prima con le manifatture estrattive e velenose.
C’è chi ha visto le cose sotto le maschere: la mutazione tecnologica produce nuovi beni, ma i rapporti di produzione sono sempre più brutali, al punto da intaccare il relativo benessere di paesi abituati al consumo. Le nuove istanze, nei paesi emergenti, si saldano alle esigenze della classe media di quelli sviluppati, specie nei segmenti culturalmente consapevoli (aree movimentiste, ambientalismi locali, gruppi religiosi, professioni intellettuali, militanti storici dei partiti, aree civiche di opinione) e al proletariato lavoratore o ai margini della produzione. La mistura è eterogenea e preoccupa il potere organizzato. In questo quadro il G8 convocato a Genova, se letto insieme all’ 11 Settembre di qualche settimana dopo, riassume il salto senza rete nel nuovo secolo.
La scelta di Genova è presa sotto il governo italiano di centrosinistra, che predispone misure poliziesche drastiche; la realizzazione, tuttavia, è a cura del governo di destra, con Berlusconi ancora giovane, smanioso di rivincita, e con Fini, il pupillo di Almirante, direttamente negli uffici chiave dell’ordine pubblico locale. La gestione è ancora più violenta, ma a volerlo non è solo Roma: l’Italia lavora per conto terzi.
In quei giorni la repressione colpisce un movimento eccezionalmente vario e propositivo, anche se con difetti di organizzazione. Mentre da una parte la rappresentazione del potere riunisce in uno spazio blindato pochi personaggi, incapaci di fare altro che gli interessi di una minoranza, dall’altra una massa di persone – il Genoa social forum riunisce più di mille sigle – discute, propone, organizza lavoro per il futuro. Quello che viene disegnato è soprattutto un progetto di tutela dell’ambiente e di promozione sociale in direzione dell’uguaglianza e della solidarietà, e sta in questo la novità di ciò che voleva chiamarsi altermondialismo. Si voleva una diversa integrazione umana a livello mondiale, si parlavano molte lingue, si contrastava la realtà inaccettabile della ricchezza e del potere concentrati in poche mani. “Voi G8, noi 6.000.000.000”, e poi “La storia siamo noi”. Ma “You 1%, we 99%” era lo slogan più chiaro, valido allora quasi quanto adesso. Altro che resilienza.
Sulle proposte concrete Genova, babelica anche se seguiva un discorso avviato soprattutto a Porto Alegre, andava dai programmi dichiaratamente rivoluzionari al sindacalismo organizzato, alle misure in tema di clima, sino all’idea di tassazioni mirate contro lo strapotere della finanza, insieme a molto altro. La mancanza di un disegno più unitario, nella direzione di una democrazia ambientalista per il Ventunesimo secolo, lasciò un senso di incompleto, ma non permette di considerare sprecata quell’esperienza.
A settembre l’uovo velenoso, covato già durante la contrapposizione tra i blocchi, sostenendo il fanatismo religioso in Oriente, si schiuse per ribadire i rapporti di forza, con l’opzione militare. In fondo, quanto aveva dichiarato Brzezinski a “Le Nouvel Observateur” nel 1998 – “Cos’è più importante per la storia del mondo? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano riottoso o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?” – era sempre valido, anche mettendo nel conto le Torri gemelle. Il sistema di potere ne uscì intatto, e col successo dei talebani, ancora in questo 2021, viene da dire che il cinismo paga.
Invece no. Il vero debito resta non pagato, i conti aperti dell’umanità sono sempre lì e sono più pesanti. I cambiamenti climatici, le offese all’ambiente con i contraccolpi sanitari che stiamo pagando cari, e in più le ingiustizie sociali, confermano le preoccupazioni che avevano portato a Genova trecentomila persone, più lungimiranti di pochi potenti intoccabili.
Tutto questo vuole ancora attenzione, senza lasciarsi distrarre dal sangue e dalle torture, armi di distrazione di massa. Genova e New York – sarà un caso, ma sono due città di mare aperte verso il mondo – da quel 2001 ripetono una lezione: un altro mondo è sempre possibile, un altro mondo è più necessario di prima.