L’economia turca, a dir poco, traballa. Le banche turche, a dir poco, traballano. La lira turca, a dir poco, traballa. E il consenso politico? A dir poco, traballa. Eppure Erdogan appare sempre pronto a rilanciare. Si chiama Afghanistan la sua nuova opportunità.
Tra i mille interrogativi che in queste ore si pongono riguardo al ritiro degli Usa e degli alleati europei dall’Afghanistan, il più interessante riguarda quello turco. Infatti anche la Turchia, membro della Nato, è in Afghanistan. Vi è con seicento militari, di stanza all’aeroporto internazionale di Kabul. Ma, a differenza degli altri Paesi della Nato, la Turchia non ha annunciato alcun ritiro dall’Afghanistan, e questo ha innervosito i talebani: il 12 luglio fonti ufficiali talebane hanno definito sgradita l’idea turca di assumere il controllo della sicurezza all’aeroporto internazionale di Kabul, aggiungendo che ciò “avrebbe conseguenze”.
Il progetto in effetti sembra proprio questo, dato che Erdogan ha reso noto di aver concordato con Biden che il suo Paese prenderà il controllo della sicurezza dell’aeroporto al posto degli americani, ma non risulta un invio di ulteriori soldati. I “dettagli”, secondo il presidente turco, devono ancora essere definiti con Washington. L’espressione “dettagli” può essere tecnica, ma questo non sembra affatto un dettaglio. Ankara sa bene che c’è una possibilità per aumentare la presenza turca senza invio di ulteriori soldati: è quella di inviare mercenari reclutati nell’inferno siriano, già sperimentata con successo nel Nagorno Karabakh e in Libia. Lo stesso ha fatto Mosca in Libia: il meccanismo dunque è oleato e funziona. Il “dettaglio”, però, nel caso dell’Afghanistan è denso di rimandi, vista la storia terrificante che i miliziani stranieri e questo Paese condividono. Si vedrà. Perché il punto non è irrilevante, tutt’altro, per Erdogan.
Se si guarda la cartina geografica, tenendo a mente il pan-nazionalismo che ispira da qualche anno il leader turco, si noterà che molto vicino all’Afghanistan ci sono Paesi sui quali l’occhio imperial-nazionalista di Erdogan è attentissimo da tempo, come il Turkmenistan e il Kirghizistan, per esempio. Ma non c’è solo l’influenza regionale, o il nazional-imperialismo, a spingere Erdogan. C’è anche il desiderio di fare un “favore” a Joe Biden e alla Nato, con la quale il leader turco è ai ferri corti per l’acquisto dei missili russi S-400, non proprio un gesto amicale da parte di un membro della Nato, e per i gravi dissapori sulla questione dei curdi di Siria.
Vista così la posizione di Erdogan sembra più chiara: fare un favore a Biden per espandere l’influenza turca in Asia centrale, conquistare altro spazio nel nord della Siria e forse nel nord dell’Iraq, mantenendo il buon rapporto con Mosca. Ma non è tutto. L’economia turca, come detto, non è affatto florida. E tutti sanno che i confini afghani hanno visto la fuga di tantissimi profughi, costretti a lasciare il loro paese per i combattimenti e la conseguente insicurezza, o per paura di sviluppi ancora peggiori. In Turchia negli ultimi mesi sono giunti circa 270mila afghani, quasi tutti attraverso l’Iran. Ma non è questo che spaventa Erdogan, anzi, le sue parole sembrano un programma politico-economico, per le sue ambizioni e le sue impellenze. Era il 14 giugno, cioè più di un mese fa, quando ha detto: “Se ci chiederanno di non lasciare l’Afghanistan e di dare assistenza, allora il sostegno che gli Stati Uniti ci daranno in termini diplomatici, logistici e finanziari sarà di grande importanza.” Che Erdogan conti di chiedere un “contributo” per ospitare i profughi appare evidente. Ma forse lui intravede il giorno in cui con i mercenari assoldati nell’inferno siriano, dove la vita è impossibile per ogni padre di famiglia, vigilerà sulla sicurezza di Kabul? O il giorno in cui una sorta di Nato-2 lo accompagnerà verso la Cina, verso quello Xinjiang dove, pur presentandosi come il “piccolo padre” dei musulmani perseguitati, ha taciuto su quanto accade agli uiguri?