È un bel paradosso. Il destino dei 5 Stelle è nelle mani dell’ala governista del movimento. Cioè soprattutto di Luigi di Maio (ministro degli Esteri), di Roberto Fico (presidente della Camera) e di Stefano Patuanelli (ministro delle Politiche agricole). Sono coloro che sono stati nominati “saggi” insieme al “reggente” Vito Crimi e a Ettore Licheri, Davide Crippa e Tiziana Beghin. Il loro compito è trovare la mediazione per scongiurare la scissione, data fino a qualche giorno fa per sicura. Devono perciò dare forma a statuto, carta dei valori, codice etico per sancire un rinnovato equilibrio politico. Un lavoro delicato, perché i successi dei grillini sono legati all’informalità e all’assenza di norme interne.
Il paradosso è che il movimento che aveva promesso fuoco e fiamme contro le istituzioni e il politichese, di fronte alla propria crisi, ragiona soprattutto su come creare meno problemi possibili al governo di Mario Draghi. La deflagrazione dei 5 Stelle, infatti, oltre a sancire probabilmente la fine della propria esperienza, farebbe scricchiolare l’attuale maggioranza anomala di governo in pieno “semestre bianco”, quello che precede l’elezione del presidente della Repubblica e rende impossibili elezioni anticipate.
Decisivo è l’umore che si aggira tra deputati e senatori grillini preoccupati che le nuove regole confermino quella del massimo di due mandati (come piacerebbe a Grillo). Erano ben 356 eletti nelle ultime elezioni politiche, quando i grillini raggiunsero la cifra da capogiro del 32% del consenso. Ora, tra dimissioni e abbandoni, non si sa quanti siano rimasti di quel battaglione di eletti (molti con poche decine di voti). I sondaggi che girano tra gli addetti ai lavori dicono che un partito di Conte potrebbe ottenere all’incirca il 10%, mentre i 5 Stelle, senza Conte, non supererebbero l’8. Questi numeri spiegano più di tante considerazioni il tentativo di riconciliazione in extremis che accontenta quasi tutti.
Non si sa molto sul lavoro dei sette saggi, il cui esito resta incerto anche se l’ipotesi della ricomposizione resta quella con più chance. Circolano voci sul fatto che la possibile quadra unitaria starebbe nel piccolo passetto indietro di Beppe Grillo e Giuseppe Conte già compiuto da entrambi. Al primo resterebbe il ruolo di garante identitario, al secondo quello di segretario di fatto del movimento. Dopo le parole dure che si sono rivolti reciprocamente nei giorni scorsi, i due big stanno provando a tornare a convivere, altrimenti lo spazio di azione si restringerebbe inevitabilmente per ognuno. Cade di conseguenza la presunzione di Conte di stabilire regole interne e statuto da solo. Grillo, da parte sua, sta prendendo atto che lui conserverebbe un ruolo centrale, seppure appena ridimensionato. Quindi, non “diarchia” ma convivenza di ruoli. Verrebbe poi ribadita la collocazione dei 5 Stelle nel centrosinistra, che sancirebbe la fine della teoria e della pratica “né di destra, né di sinistra”. Questa è la vera novità politica che tranquillizza Enrico Letta, il quale ha affidato le sorti del Pd all’alleanza elettorale con i pentastellati e non ha carte di riserva nel cassetto. Alessandro Di Battista, che invoca il ritorno alle origini dei “vaffanculo days”, resta più o meno isolato.
A scongelare la situazione ci ha pensato l’incontro tra Grillo, Di Maio e Fico tenutosi lo scorso fine settimana nella villa del comico in Toscana, a Marina di Bibbona. Una mossa subito ben vista da Conte che non ha mai auspicato la scissione, pur non rinunciando al suo ruolo di leader in pectore. È in quella occasione che Grillo ha accettato l’idea di nominare i sette saggi e di non procedere immediatamente all’elezione di un nuovo direttivo che avrebbe equivalso alla rottura definitiva. Il comico ha scelto la tregua e la riflessione. Il problema sarà vedere se la montagna 5 Stelle partorirà un topolino o qualcosa di più.
La tregua in atto interna ai grillini ha intanto frenato i rapporti tra Conte e Pier Luigi Bersani, leader di Articolo Uno, formazione nata dalle costole del Pd e che ha altri leader nel ministro Roberto Speranza e Massimo D’Alema. Infatti Bersani e Conte avevano preso a sentirsi e incontrarsi ripetutamente, fino al punto da ipotizzare possibili scenari di collaborazione comune. Da tempo Articolo Uno invoca una “cosa” nuova più larga e di sinistra del Pd, che intanto dovrebbe prendere atto – secondo Bersani – che l’unificazione del 2007 tra Margherita e Ds non ha risolto il problema né del soggetto politico della sinistra, né di quello dell’alleanza del centrosinistra (c’è molta nostalgia per i tempi dell’Ulivo di prodiana memoria).
Le resistenze di Letta a offrire un salvagente a Conte e Bersani, in nome di un progetto unitario e innovativo che metta in discussione l’attuale Pd, sono molte. I partiti tendono alla conservazione di se stessi, quasi mai si autoriformano. In tempi di vacche magre per il centrosinistra, e di legge elettorale da rifare, le nuove avventure spaventano. Eppure chi non risica non rosica.