Da dirigente dei penitenziari, e direttore del carcere di Taranto, non posso che prendere le distanze pubblicamente dalla violenza raccontata dai gravi fatti di Santa Maria Capua Vetere. Anche perché, fedeli alla Costituzione, non possiamo accettare la violazione dell’articolo 27 della stessa: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quei fatti dell’aprile dello scorso anno, purtroppo, confermano come l’assetto normativo e organizzativo dell’attuale realtà penitenziaria presenti disfunzioni che determinano pericolosi squilibri, con particolare riferimento alla linea di comando. Tra tali criticità, noi – direttori e dirigenti dell’amministrazione penitenziaria – avevamo già segnalato come profondamente discutibile la decisione di promuovere a ruoli direttivi e dirigenziali i vertici del corpo di Polizia Penitenziaria.
Nonostante la Costituzione, le norme, l’ordinamento penitenziario, il regolamento di servizio di Polizia Penitenziaria riconducano al dirigente penitenziario – cioè al direttore d’Istituto – il ruolo di garante degli equilibri costituzionali riguardanti la funzione rieducativa e retributiva della pena, con l’istituzione dei predetti ruoli la politica in generale, e l’amministrazione penitenziaria in particolare, in luogo di una definizione degli ambiti di attribuzione e competenza dei commissari e dirigenti di Polizia Penitenziaria, hanno pensato che bastasse trasferire, come se ciò fosse possibile, nel funzionario dirigente di Polizia Penitenziaria ambiti e competenze del direttore d’Istituto, senza che ciò abbia modificato la normativa di riferimento, e senza far venir meno le connesse responsabilità.
Espressioni di tali gravi disfunzioni sono rappresentate dalla bozza di riordino dei ruoli e delle carriere dell’ottobre 2019, cucita in danno della dirigenza penitenziaria, senza che la categoria ne fosse informata; e dai gruppi di lavoro nei quali si discuteva di dirigenza penitenziaria, senza che vi fosse alcun componente di essa; e ancora le copiose note indirizzate direttamente ai comandanti del reparto, senza il coinvolgimento dei direttori, sino alla famosa nota del 29 gennaio 2021, da parte del capo della Polizia di Stato Gabrielli, sulle modalità operative circa la gestione delle rivolte in carcere, nella quale viene azzerata la figura del direttore, rimettendo, ad onta di quanto normativamente previsto, la gestione delle stesse al comandante del reparto, lasciando però in capo al direttore ogni ulteriore responsabilità.
Noi dirigenti penitenziari, con la nota del 29 ottobre del 2020, fino a oggi rimasta inevasa, indirizzata all’allora capo del Dipartimento, presidente Basentini, rappresentavamo le pericolose incongruenze che la bozza di riordino innanzi richiamata – cucita in nostro danno, ripeto, senza neanche darcene conoscenza – poteva determinare. In particolare facevamo notare che un legislatore attento ad assicurare una conduzione degli istituti penitenziari rispondente a principi di equità e umanità, ha affidato al direttore dell’Istituto il ruolo centrale di garante della legalità; esigenza riaffermata in sede internazionale con la Raccomandazione R (2006)2 del comitato dei ministri degli Stati membri del Consiglio d’Europa sulle regole penitenziarie europee, cui il sistema penitenziario non può che continuare a conformarsi. Il depotenziamento del ruolo del dirigente penitenziario, direttore di Istituto, attuato con il predetto decreto, sottraendogli alcune prerogative – fondamentali per governare con equilibrio e terzietà, la difficile e complessa realtà penitenziaria – significava non solo violare i principi posti a base delle riforme sopra richiamate, ma anche creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali, senza, per contro, lasciarne intravedere i vantaggi; significava minare la governabilità degli istituti penitenziari, considerata la indefettibile funzione di coordinamento del direttore rispetto alla coesistenza delle diverse istanze interne al sistema “carcere” (trattamentali, amministrative, contabili), che devono necessariamente interagire con quella di sicurezza e i cui operatori non possono, ovviamente, riferirsi al comandante di reparto della Penitenziaria quale proprio vertice
Denunciavamo, altresì, che voler sottrarre ai dirigenti penitenziari alcuni campi di azione amministrativa, riservandoli in via esclusiva ai dirigenti del corpo di potere disciplinare (variazione dirigenziale, partecipazione nelle commissioni selettive del personale, partecipazione ai consigli di disciplina del personale, posti e funzioni di dirigenza generale), significava delegittimare, ingenerosamente, l’intera categoria dirigenziale penitenziaria, che, sino a oggi, ha svolto quelle medesime funzioni consentendo all’amministrazione di raggiungere ogni suo obiettivo istituzionale.
Con i fatti, abbiamo peraltro fronteggiato l’emergenza Covid in primissima linea, in assenza di direttive univoche in materia di gestione della popolazione detenuta all’indomani dell’interdizione dei colloqui con i familiari, in assenza di dispositivi di protezione, trasformando sartorie interne in fabbriche per l’autoproduzione di mascherine (all’interno dell’Istituto di Taranto, attraverso questa modalità, dal marzo 2020 si sono prodotte circa ventimila mascherine al mese).
In assenza del previsto riconoscimento da parte delle autorità penitenziarie preposte, abbiamo fronteggiato le rivolte della popolazione detenuta dell’8 e 9 marzo 2020. E si pensi che, dal marzo 2020 a oggi, non hanno più accesso negli istituti penitenziari gli assistenti sociali. Il comparto Funzioni centrali, tra cui è compreso quello degli educatori, continua a essere destinatario di smart working.
*Segretaria nazionale dell’Associazione nazionale dirigenti penitenziari (Andap)