Dobbiamo avere molta fede, credere, a prescindere, nella legalità delle nostre istituzioni, negli uomini che le rappresentano. E soprattutto non confondere le “mele marce” con tutti gli uomini che hanno giurato fedeltà allo Stato. Non è la prima volta che sentiamo di carabinieri, poliziotti, agenti della polizia penitenziaria indagati o arrestati per maltrattamenti o torture: il caso di Stefano Cucchi valga per tutti. Ma le notizie che arrivano oggi da Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, sono davvero sconvolgenti per le loro dimensioni, per il numero dei “servitori dello Stato” coinvolti in un pestaggio di massa contro i detenuti. Sono cinquantadue gli indagati. Di questi, otto sono finiti in carcere, diciotto agli arresti domiciliari, ventitré sono le misure interdittive (una notificata al provveditore delle carceri campane), tre gli obblighi di dimora.
Stiamo parlando del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove il 6 aprile del 2020 reparti speciali e agenti della Penitenziaria intervennero per prevenire una rivolta dei detenuti. Per il garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, “ci sono video registrati dalle telecamere a circuito chiuso del carcere e chat tra gli agenti sequestrate dall’autorità giudiziaria che confermano i pestaggi e le torture”.
Negli anni Settanta “Mo’ che il tempo s’avvicina”, un giornale legato a Lotta continua, raccontava le lotte del “proletariato prigioniero” e pubblicava le foto in prima pagina dei detenuti sui tetti di San Vittore, e le colonne di fumo che si alzavano dalle celle e dai refettori degli edifici penitenziari. Venne poi il tempo delle riforme, quella Gozzini su tutte le altre, che hanno reso più umane le carceri.
Ma il contrasto al terrorismo, soprattutto quello rosso, e allo stragismo mafioso riportarono indietro le lancette della storia. E il regime detentivo conobbe una nuova stagione molto dura. Per una parte della popolazione detenuta, possiamo dire che sono stati sospesi i diritti e le garanzie democratiche. L’abuso nell’applicazione del 41 bis, e la vita in carceri come quello di Pianosa, hanno rappresentato una offesa alla civiltà del nostro Paese.
Infine anche il Covid ha creato nuove sofferenze e drammatiche rivolte nelle carceri. È su questo che dobbiamo riflettere per capire gli arresti di Santa Maria Capua Vetere. Toccherà ai giudici valutare le accuse della Procura, ma in ogni caso i fatti accaduti sono di una gravità assoluta. Un passo indietro nel tempo. Siamo agli inizi della pandemia: marzo del 2020. Dopo un ondeggiamento tra aperture, sottovalutazioni, zone rosse, il governo cominciò a prendere in mano la situazione. Nelle carceri, con una popolazione di cinquantamila e passa detenuti, la linea fu quella di bloccare i contatti con l’esterno, vietando, per esempio, le visite dei familiari (mentre gli agenti della polizia penitenziaria, dopo il servizio, rientravano a casa).
Le carceri diventarono pentole a pressione e scoppiarono rivolte e manifestazioni di protesta in ventidue istituti penitenziari. A Foggia evasero in decine e quarantatré furono ricatturati in poche ore. A Modena e a Bologna i detenuti presero possesso di due sezioni detentive. A Rebibbia, Roma, fu gravemente danneggiato il padiglione G11. A Melfi quattro agenti furono presi in ostaggio. Rieti finì in mano ai ribelli. A Santa Maria Capua Vetere salirono sui tetti. In quei giorni drammatici, tredici detenuti morirono. Ufficialmente per overdose. L’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, andò al Senato per circoscrivere i disordini “a una ristretta parte dei detenuti”. Come per le “mele marce” degli agenti della polizia penitenziaria, vale lo stesso principio per i detenuti. Ma Bonafede sottovalutò le ragioni delle rivolte e la reazione degli agenti nel reprimerle.
Il tema dell’uso della forza è incandescente. Decine di migliaia – tra carabinieri, poliziotti e agenti della Penitenziaria – dovrebbero ogni giorno garantire la sicurezza dei nostri cittadini. E sappiamo purtroppo che il tasso di criminalità e di reati è alto. Altro è il discorso sul controllo dell’ordine e della sicurezza pubblica. E l’uso della forza – dice la legge – deve essere proporzionato alla minaccia o alla violenza di chi attacca le forze di polizia.
Il 6 aprile del 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, fu eseguita una perquisizione straordinaria alla ricerca di armi e altri elementi, al fine di impedire le proteste. Ma quel giorno reparti speciali e agenti abusarono dell’uso della forza.
Nelle carte della Procura si parla di torture e violenze, e di umiliazione della persona umana. Siamo al Medioevo. “Li abbattiamo come i vitelli”, questa la parola d’ordine emersa dalle chat degli agenti. “Alle violenze si sono sovente sovrapposte pratiche volutamente umilianti” – si legge nelle carte –, “così, le medesime immagini riguardanti le sale della socialità dei vari reparti, ove sono stati raggruppati gran parte dei detenuti perquisiti, evidenziano che gli agenti sovente costringevano i detenuti a un prolungato inginocchiamento, sotto i loro ripetuti colpi, sferrati con il manganello o con calci, pugni e schiaffi. In alcuni casi, poi, le plurime percosse inflitte ai detenuti si sono trasformate in prolungati pestaggi, durante i quali i detenuti sono stati accerchiati e colpiti da un numero esorbitante di agenti, anche quando si trovavano inermi al suolo. Paradigmatico, tra gli innumerevoli casi, era il trattamento subito da un detenuto, costretto a percorrere la sala della socialità trascinandosi in ginocchio, per essere malmenato con calci pugni e colpi di manganello; straziante era poi, tra tante, la scena in cui il medesimo detenuto, in ginocchio, cercava di proteggere il capo dalle percosse, venendo volutamente colpito da un agente con il manganello alle nocche delle dita”. Continuando a leggere: “L’elevato grado di sofferenza fisica patito dai detenuti picchiati era immediatamente percettibile dalla visione dei filmati del circuito di video sorveglianza, emergendo in maniera tragicamente evidente che gli agenti di Polizia Penitenziaria infliggevano alle vittime colpi, volutamente violenti, imprimendo notevole forza sia quando li colpivano con schiaffi, pugni e calci, sia quando utilizzavano il manganello”.