La sfida dei sindacati è lanciata e l’obiettivo è quello di disinnescare la “bomba sociale” dei licenziamenti di massa, dopo un anno di pandemia che ha già intaccato pesantemente gli equilibri del mercato del lavoro. Le cifre sono diverse, ma tutte molto preoccupanti. L’Eurostat ha parlato di una riduzione di circa cinquecentomila posti di lavoro in Italia, a causa delle chiusure e delle crisi legate al Covid 19, mentre la Banca d’Italia calcola i possibili effetti finali dello sblocco dei licenziamenti: settecentomila posti di lavoro a rischio. Per questo non si può scherzare con il fuoco, e non si devono sottovalutare le parole della ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, che ha ammesso il rischio di un’esplosione di rabbia sociale. Migliaia di famiglie sono con il fiato sospeso, mentre ancora non sappiamo niente della riforma degli ammortizzatori sociali, che dovrebbe creare quanto meno un argine, una diga. In questo senso si è sbilanciato in queste ore il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che si è preso la responsabilità di dire che il governo risolverà la questione entro i primi giorni di luglio. Il conto alla rovescia è cominciato.
Un Patto ballerino
Ma l’accordo tra forze sociali e governo sembra ancora molto lontano, nonostante le proposte e gli inviti del ministro Brunetta. Mentre in altre occasioni (accordo sui protocolli di sicurezza per il Covid, accordo per il pubblico impiego, accordo sugli appalti) la collaborazione tra sindacati, imprese e governo ha portato a risultati importanti, questa volta il rischio del conflitto è evidente, perché sulla questione dei licenziamenti almeno due dei tre soggetti in gioco hanno idee completamente diverse. Per le imprese, in questo caso guidate da Confindustria, la libertà totale di licenziare è la condizione preliminare per rilanciare la crescita.
Il ragionamento è semplice, ma non è supportato da nessuna teoria economica seria: gli industriali vorrebbero farci credere che, licenziando, potranno avere la possibilità di rilanciare la produzione. Una teoria basata su una ideologia più che su dati scientifici. Cgil, Cisl e Uil sfidano invece il presidente Draghi a individuare soluzioni alternative ai licenziamenti. “Noi non viviamo su un altro pianeta, conosciamo le difficoltà delle imprese e dell’economia – ha dichiarato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini –, sappiamo però che si possono evitare i licenziamenti ricorrendo a strumenti alternativi”. “Caro presidente Draghi – ha detto sabato scorso il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra durante la manifestazione di Firenze – il governo deve cambiare atteggiamento, serve una stagione di rinnovata concertazione, ma, se questa via non verrà percorsa dal governo, noi proseguiremo la mobilitazione”. Per il segretario della Uil, Pier Paolo Bombardieri, “siamo l’unico paese con il blocco? Sì, ma anche l’unico in cui la cassa integrazione è andata a tutte le imprese senza distinzione”.
Anomalia nostrana
Sulla “anomalia” italiana si sono comunque esercitati in questi giorni vari commentatori. Il quadro è chiaro: l’anomalia è solo apparente, perché anche se in nessun altro Paese europeo è stato adottato un blocco generalizzato dei licenziamenti, e per così tanto tempo, è anche vero che l’Italia (come ha scritto Roberto Mania su Repubblica) “ha il peggior mercato del lavoro dell’Unione, nel quale domanda e offerta fanno fatica a incontrarsi, nonché un sistema di ammortizzatori sociali iniquo, inefficace, inadeguato alle esigenze delle imprese e dei lavoratori, al quale è stato chiesto anche di supplire (vedi i casi della cassa integrazione o della mobilità erogate per decenni) alla storica mancanza di politiche attive per il lavoro”.
La grande occasione
Ora il Paese, soprattutto con le risorse del Recovery Plan, ha la possibilità di cambiare perché è evidente a tutti che, uscendo dalla pandemia, non si deve tornare alla situazione pre-crisi: troppe le cose che non andavano. Soprattutto è chiaro a tutti che le “uscite” dalle crisi finanziarie ed economiche degli anni passati sono state tutte verso direzioni sbagliate. Per voltare pagina, si deve scommettere sul lavoro di qualità e sui giovani. Il punto, o meglio il problema principale che l’Italia dovrà risolvere, è stato riassunto con grande capacità sintetica dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: “La specializzazione in attività tradizionali e la piccola dimensione riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione”.
L’altra grande questione, la vera occasione storica, riguarda la necessità di rilanciare l’economia sulla base di una radicale transizione ecologica. Tutto il mondo produttivo è chiamato a un grande “balzo”: non si deve solo ripartire, si deve ripartire facendo cose diverse dal passato visto che (solo per fare un esempio) l’intero sistema energetico è messo in discussione dalla decisione di uscire dalle fonti fossili entro il 2050. Anzi, per essere più precisi, entro il 2025, come è stato scritto nel Piano di ripresa e resilienza italiano presentato e approvato a Bruxelles.
Una buona notizia
Intanto è stato emanato dal ministero del Lavoro il decreto attuativo del Documento unico di regolarità contributiva di congruità (Durc). Questo significa che, dal primo novembre prossimo, per ogni cantiere dovrà essere denunciato un numero minimo (“congruo”) in base al tipo di lavorazione – senza dichiararne meno e usarne altri in nero –, così come previsto nell’accordo sottoscritto il 10 settembre 2020 dalle parti sociali. “Dopo anni di mobilitazioni portiamo a casa una grande vittoria dei lavoratori edili contro il lavoro nero – ha commentato Alessandro Genovesi, segretario generale Fillea Cgil –, è uno strumento per combattere lavoro irregolare, concorrenza sleale, dumping contrattuale e dare sicurezza nei cantieri”. Le nuove regole e il controllo di appalti e subappalti, per il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, sono la scelta che dovrà essere operata per tutti i settori, sia pubblici sia privati.