“Cosa guardate? chiese il maestro – È un indio, disse Pancorvo, alunno dell’ultimo anno. Non ne avevi mai visti? gli chiese il maestro – A scuola no. Appesterà tutto…”. Questo è il Perù che racconta negli anni Sessanta il grande scrittore Josè Maria Arguedas. E questo – dopo mezzo secolo – è il Perù di oggi: in piazza, a Lima, rumoreggia una folla di migliaia e migliaia di persone, arrivate nella capitale dalle lontane aree rurali andine, povere e marginali. Chiusa in casa, rabbiosa e impaurita, la buona borghesia bianca cittadina assiste a questo inconcepibile spettacolo.
Sono in ballo poche decine di migliaia di voti, con il candidato della sinistra in testa e la leader della destra che incalza. Deciderà il tribunale, deciderà una tremebonda giustizia: il nuovo presidente, il nuovo governo, il futuro di un Paese sfinito dalla pandemia e da una miseria atavica e mai riscattata.
“Il Perù deve far fronte a una sorta di guerranucleare”, dice il politologo Mauricio Zavaleta. Ricordiamo in breve: tre presidenti dimissionari in un anno, la politica ridotta a una rissa tra ubriachi, ospedali come immondi lazzaretti e il tasso di mortalità per Covid più alto di tutto il continente latinoamericano, l’economia precipitata nel pozzo di una crisi senza precedenti.
Pochi giorni fa il rito di una moderna e imperfetta democrazia ha messo il Paese di fronte a uno specchio impietoso: la frattura geografica, sociale, economica e razziale che lo attraversa e lo fa sanguinare sin dai tempi lontani dell’indipendenza. I due contendenti di oggi sono maschere perfette nella rappresentazione di questo dualismo categorico. Da una parte il maestro di campagna, comunista scolastico e rudimentale, un giovane indio che sembra uscito dalla fantasia di un De Amicis andino. Dall’altra, la figlia non pentita di un presidente-dittatore, erede di una dinastia degli affari nippo-peruviana, una donna senza qualità se non quella della pelle bianca e della potenza del denaro.
Le idee seguono i protagonisti: la promessa di un mutamento palingenetico e di una rivoluzione dei poveri contro la garanzia della continuità nel modello sperimentato di un liberismo straccione scolpito nella pietra dell’ingiustizia sociale. Infine, anche la geografia elettorale ricalca l’antico schema binario: Fujimori ha rastrellato la stragrande parte dei propri voti nelle aree urbane e Castillo ha trionfato nelle “terre alte”, nelle zone rurali dove vivono miseramente indigeni e meticci. Queste elezioni, sottolinea ancora Zavaleta, hanno “approfondito le differenze tra peruviani”.
Oggi una sorta di disperato spareggio tiene sospeso il Perù sul filo della guerra civile. Lo storico José Ragas afferma che la contestazione del risultato delle urne rivela il terrore delle élite sociali ed economiche della capitale di perdere il controllo politico del Paese. Con in più una venatura di cronaca nera: Keiko Fujimori rischia fino a trent’anni di carcere per clamorose irregolarità finanziarie collegate alla campagna elettorale. Negli ultimi mesi la candidata della destra è stata arrestata e liberata per tre volte, e un possibile mandato presidenziale la proteggerebbe per cinque anni dagli effetti di una sentenza di colpevolezza.
Keiko combatte dunque “per la vita”, che potrebbe essere anche la vita del vecchio genitore, rinchiuso in carcere dal 2019 e nella disperata ricerca di un possibile intervento di clemenza. Anche l’antico despota è una maschera nel tragico teatro della storia peruviana. Alberto Fujimori sconta la sua pena per la vicenda del piano sanitario del suo governo che portò alla sterilizzazione forzata di oltre trecentomila donne delle comunità andine. Si trattò – dicono i giudici – di una sorta di pulizia etnica su base medica criminale.
Torna qui l’ossessione per il controllo che ha sempre macchiato l’agire politico della parte bianca del Perù (l’indio “appesterà tutto”, come scrive Arguedas). La pulizia etnica del vecchio Fujimori è sulla stessa linea della legge elettorale del lontano 1896 che stabilì il suffragio diretto, ma vietò il voto a chi non sapesse leggere e scrivere, con il risultato di circoscrivere l’universo degli elettori a maschi adulti, urbani, alfabetizzati e culturalmente bianchi.
Tra i fantasmi dell’eterno Perù non potevano mancare gli uomini in uniforme, il ceto militare, le alte gerarchie delle armi. In una violenta lettera inviata al Comando delle forze armate e firmata da oltre cinquanta ufficiali in ritiro si denuncia una presunta frode elettorale, e Pedro Castillo viene definito “presidente illegale e illegittimo”. L’invito a un colpo di Stato è esplicito quando si reclama “l’intervento degli alti gradi militari per impedire una proclamazione illegale e illegittima, conseguenza di un delitto politico”.
La lettera è firmata da ammiragli, colonnelli e generali in servizio nell’epoca del presidente Fujimori, molti dei quali oggi sotto accusa per clamorosi scandali politici e malversazioni economiche. Aggiunge un tocco di funerea ironia il fatto che cinque, tra i firmatari, siano da tempo deceduti e celebrati ogni anno con affollate cerimonie funebri. Gli autori di questo maldestro invito alla sollevazione militare sono gli stessi personaggi che ha così mirabilmente descritto Mario Vargas Llosa nei suoi romanzi, da La città e i cani a Pantaleon e le visitatrici, da Lituma nelle Ande a Conversazione nella Cattedrale. Eppure, anche per il venerato premio Nobel conta oggi la reazione bianca, l’ossessione del controllo, il timore ancestrale del padrone nei confronti dello schiavo nero, mestizo, cholo, indio.
Oggi lo scrittore cosmopolita, il maestro riconosciuto universalmente, l’intellettuale democratico che venti anni fa si schierò contro il dittatore, sceglie tristemente il suo campo a fianco dei generali felloni che si godono suntuose pensioni nelle ville principesche di Miraflores e nei resort a picco sull’Oceano. Ordine, sembra dire il vecchio Varguitas: ordine sempre e comunque, a ogni costo. È l’ammonimento che, nel romanzo di Manuel Scorza, il traditore Chuto rivolge al capopopolo Agapito Robles: “Pensa a quello che fai. Se ti impadronisci della terra con la violenza sconvolgi il mondo. Nel mondo ha sempre regnato un ordine: sopra quelli che devono stare sopra, e sotto quelli che devono stare sotto. Ma quelli di sopra vigilano su quelli di sotto. Tu vuoi sconvolgere tutto. Rifletti: l’ordine è come la verginità della donna, non si può recuperare”.