Come previsto da tutti gli osservatori, l’ultraconservatore Raisi – candidato “ufficiale” della Guida suprema, l’ayatollah Khamenei – ha vinto le elezioni presidenziali di venerdì scorso in Iran. Si pensi che, su oltre cinquecento aspiranti, solo sette erano stati ammessi dal Consiglio dei guardiani della costituzione (composto da sei religiosi nominati dalla Guida e da sei giuristi convalidati dal parlamento su proposta del potere giudiziario), un organo che ha la facoltà di invalidare le candidature. La partecipazione al voto è stata, però, la più bassa di sempre: meno del 50% degli aventi diritto. Non siamo comunque ai livelli dell’Algeria, dove pure di recente si sono tenute delle elezioni per il parlamento e la percentuale dei votanti è stata di poco superiore al 23% (ma qui l’opposizione, organizzata nell’Hirak – il movimento che, nei mesi precedenti alla pandemia, era riuscito a mettere in scacco il potere –, aveva apertamente esortato al boicottaggio dello scrutinio).
La conferma che viene dal voto, e va nel senso di un “come volevasi dimostrare”, è che, se l’Occidente fa la faccia feroce, esce dagli accordi sul nucleare faticosamente raggiunti, seguita con le sanzioni che danneggiano unicamente i cittadini (com’è accaduto con gli Stati Uniti di Trump, arrivato fino all’omicidio mirato ai danni del generale iraniano Soleimani), non si mette in crisi il regime, anzi lo si rafforza, in quanto non si contribuisce ad acuirne le contraddizioni interne, cercando di dare una mano alle forze moderate o riformatrici, facendo piuttosto il gioco dei conservatori.
Ora il nuovo primo ministro israeliano Bennett, un estremista, può strombazzare ai quattro venti che il presidente iraniano eletto, a sua volta, è un estremista sanguinario (Raisi, per il passato, ha sulle spalle la responsabilità di esecuzioni di massa, nonostante la carica precedentemente ricoperta sia stata quella di capo del potere giudiziario). Ma nella partita internazionale degli “opposti estremismi” che si gioca in quella parte del mondo non si sa quale dei due sia più funzionale all’altro.
Nel trattare la questione dell’islamismo radicale, e in particolare quella dell’Iran sciita, bisogna considerare che ci troviamo dinanzi a una politica “messianica”. La repubblica islamica (ben diversa, tra parentesi, dal califfato sunnita vagheggiato dall’Isis o da al-Qaeda) è una sorta di repubblica platonica in cui a governare sono i “saggi”: solo che in Platone sarebbero stati i filosofi, e qui – paradosso non da poco per una rivoluzione avvenuta nel 1979 – sono i teologi. Nei confronti di un fenomeno storico così bizzarro, una linea di contenimento del ruolo di potenza regionale rivestito dall’Iran – impegnato su più fronti politici e militari, dalla Siria allo Yemen, passando per lo stesso Iraq – dovrebbe essere quella di far crescere dall’interno del paese un moto, anzitutto culturale, di messa in discussione della teocrazia. I presupposti ci sarebbero: già in passato, soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 2009, i cittadini iraniani hanno mostrato, con una eroica protesta repressa nel sangue, di non poterne più di un potere così oppressivo. Ma se si indeboliscono i Rohani (cioè i moderati o i riformatori, come il presidente uscente), è normale che vengano su i Raisi. Siamo dentro una logica politica elementare a cui oggi la dirigenza statunitense non può che fare ritorno, pur nelle mutate, più difficili, condizioni.
Al momento, invece, quegli iraniani che non si sono recati alle urne, attuando così una forma di dissenso contro gli arbìtri del regime, quale sponda hanno trovato in un Occidente che, con le sanzioni, li costringe a tirare la cinghia?