L’eco-socialismo nasce negli anni Sessanta del secolo scorso in Germania, associando alla denuncia delle ingiustizie sociali del capitalismo una forte critica dell’industrialismo, appannaggio della stessa sinistra. La critica si concentrava sull’insostenibilità della tesi del marxismo ortodosso in merito alla desiderabilità di uno sviluppo illimitato delle forze produttive. Ma il termine, in sé, non riesce a dissipare l’ossimoro che risulta dall’accostamento tra le parole “ecologia” e “socialismo”, specialmente alla luce dell’esperienza dei paesi del “socialismo reale”, del loro industrialismo sfrenato incurante dell’inquinamento prodotto. Esperienza rinnovata nella Cina del “socialismo con caratteri cinesi”.
Altri critici si spingono più in là considerando che il marxismo dello stesso Marx sia responsabile di questo iato tra ecologia e socialismo. Per esempio, Riccardo Bellofiore sostiene che il tentativo di James O’Connor di conciliare marxismo e ambientalismo (L’ecomarxismo, introduzione a una teoria) non sia convincente. O’Connor vede nella distruzione della natura la forma attuale della teoria del crollo, e con ciò intende incorporare il marxismo nell’ecologia; al tempo stesso individua nel dominio generale del capitale la causa attuale più grave del dissesto ambientale e nel bisogno di democrazia radicale un’esigenza universalistica, con ciò intendendo incorporare il pensiero verde nel marxismo.
In realtà, la crisi ecologica può rappresentare un’opportunità di profitto. Il capitale sa trovare le vie di uscita dalle proprie contraddizioni, e sa anche come gestire le lotte delle masse che esse suscitano. Il greenwashing del capitalismo verde, delle grandi multinazionali, è sotto i nostri occhi tutti i giorni, per esempio con la pubblicità di Eni.
Marx, dunque – prosegue Bellofiore –, afferma la dipendenza del capitale da un elemento naturale: la forza-lavoro che ha un corpo. Una forza-lavoro che può essere antagonista, ma che di norma è subordinata al capitale. L’operaio vive se vive il proprio opposto – anche se vive male e in alcuni casi muore. È legato per il salario, per l’occupazione, per i mille fili di una cultura industrialista. Pensiamo alla vicenda dell’ex-Ilva di Taranto e alle titubanze della stessa Fiom.
La socialdemocrazia, che ha affidato alle teorie keynesiane il successo del compromesso storico dei gloriosi trent’anni del dopoguerra, non sta messa meglio. Il limite del keynesismo consiste proprio nell’esigenza di superare la crisi di realizzo del capitale mediante la domanda generata dalla spesa pubblica e dalla redistribuzione dei redditi, presupponendo però l’incremento del prodotto interno lordo e il consumo sempre maggiore delle risorse naturali. L’applicazione della strategia keynesiana ha coinciso storicamente con la grande accelerazione nella predazione industriale della natura. La prospettiva di Keynes è quella dell’abbondanza che sola consentirà di dedicarsi al tempo libero e all’arte di vivere. Liberarsi tramite l’abbondanza non è auspicabile, non solo per la catastrofe ecologica che determinerebbe, ma anche perché la qualità della vita importa alle persone fin da subito, anche nelle modalità con cui si esplica la propria attività lavorativa.
Nascita di un’ecologia popolare
Il 17 novembre 2018 esplode in Francia una protesta inedita contro l’introduzione di una tassa definita “ecologica”. I gilets jaunes scenderanno in piazza per mesi infiammando il Paese ogni sabato. Una protesta che non si vedeva da tempo. Certo, le rotatorie occupate dai gilets jaunes non sono le barricate parigine del 1848-49; i circa 2.500 feriti censiti non sono neanche lontanamente paragonabili alla repressione armata che insanguinò la breve vita della seconda repubblica francese; né Macron è l’equivalente di quel Luigi Bonaparte (in seguito Napoleone III) che Marx descrisse come un “personaggio mediocre e grottesco”; ma queste lotte hanno lasciato un segno duraturo nella storia della lotta di classe in quel Paese e in Europa.
All’inizio ci sono state mobilitazioni per protestare contro l’adeguamento dell’accisa sul gasolio a quella prevista per la benzina; in seguito il ventaglio delle rivendicazioni si è allargato a tutti i temi della giustizia sociale e, sorprendentemente, anche alla lotta ai cambiamenti climatici: “fin du mois, fin du monde, meme combat!” (fine del mese, fine del mondo, stessa lotta!).
In realtà, l’adeguamento a quella sulla benzina della “tassa interna di consumo sui prodotti energetici” applicata al diesel, non era propriamente una tassa ecologica. L’aumento – come denunciato anche dal presidente della Commissione Finanze del Senato, il socialista Vincent Eblé – era destinato al bilancio dello Stato in generale, e non a misure per la transizione ecologica. Serviva cioè a compensare il mancato introito derivante dalla soppressione della “imposta sulla ricchezza finanziaria” voluta da Macron a favore dei più ricchi, seguendo la teoria fasulla del cosiddetto “sgocciolamento”: cioè date soldi ai ricchi che li investiranno e spenderanno e li faranno sgocciolare così fino ai piani bassi della società.
Eppure, se si osservavano i profili socio-economici dei partecipanti alle proteste dei gilets jaunes e a quelle per il clima, si doveva registrare una frattura sociologica netta. I primi, schematicamente, appartenevano alle classi popolari: operai, impiegati, precari, artigiani, piccoli commercianti delle zone più periferiche del paese. Il 90% di loro, come risultò da diverse inchieste, aveva difficoltà a raggiungere la fine del mese. Gli altri erano soprattutto appartenenti alle classi medie superiori: 50% erano dirigenti o figli di dirigenti; un movimento giovane, urbano, concentrato nelle metropoli. I primi venivano accusati di essere insensibili ai temi ecologici e di inquinare con le loro auto, mentre la maggior parte di loro non prende mai l’aereo. Li si accusa di non adottare un modello di vita ecologico quando le vere responsabilità della distruzione del pianeta vanno ricercate altrove.
I dati resi pubblici dalla Ong Oxfam parlano chiaro: le trentadue più grandi multinazionali, tra le quali ExxonMobil, Shell, Total o anche Eni, sono responsabili del 70% delle emissioni di gas serra dal 1988. Il 10% più ricco della popolazione mondiale (circa 630 milioni di persone) è responsabile del 52% delle emissioni cumulate di CO2. Il 50% dei più poveri del pianeta sono responsabili soltanto del 7% delle emissioni cumulati di CO2.
Nei paesi occidentali l’un per cento dei più ricchi ha un’impronta carbone quaranta volte superiore al 10% più povero. Per chi ha redditi bassi la bolletta energetica ha un peso tre volte più importante che per il 20% dei più ricchi. Chi ha un reddito basso deve andare a vivere in periferia o nell’hinterland, le stazioni ferroviarie secondarie chiudono, i mezzi di trasporto pubblico scarseggiano e l’utilizzo della vecchia automobile diventa indispensabile.
Nel movimento dei gilets jaunes ci si è confrontati nei presidi sulle rotatorie, giorno dopo giorno, sulle proprie condizioni di vita, sull’asma del bambino causata dall’alloggio inadeguato, sui problemi dovuti a un’alimentazione non sana, sulle difficoltà di trasporto per andare al lavoro o a fare la spesa in luoghi decentrati potendo utilizzare solo la propria macchina. È venuto naturale interessarsi del movimento ecologista che contemporaneamente scendeva in piazza. Ma rielaborando il tutto. Ponendo così le basi di un’ecologia popolare.
Un nuovo blocco popolare
La questione del cambiamento climatico è stata finora un’astrazione, un impegno per una causa distante e sconnessa dalla vita quotidiana. Quando l’ecologia faceva riferimento alla vita di tutti i giorni, assumeva l’aspetto di uno stile di vita individuale del tutto compatibile con il funzionamento dell’economia di mercato: prodotti biologici, spostamenti in bicicletta, alimenti non a base di carne, ecc. In breve, l’ecologia era il trucco dei vincitori della globalizzazione e non delle persone più fragili per i quali questo stile di vita era, nella migliore delle ipotesi, un lusso e, nella peggiore, un elemento di distinzione sociale e morale. Tuttavia, ci accorgiamo gradualmente che le prime vittime del cambiamento climatico saranno proprio le classi sociali impoverite, già esposte a molte minacce e incertezze. Sono quelle che sono state maggiormente colpite dai cambiamenti avvenuti di recente. Le aree periferiche sono particolarmente vulnerabili alla siccità e ai cambiamenti climatici che distruggono paesaggi, ecosistemi locali e degradano le falde acquifere.
Questo fatto politicamente nuovo – ma scientificamente noto da molto tempo – provoca sempre più dibattiti sulla necessaria articolazione tra il sociale e l’ecologico. Gli slogan che invocano un’ecologia popolare sintetizzano questa duplice esigenza: ancorare l’ecologia tra i ceti popolari e non tra le élite come priorità politica; soddisfare le esigenze di quelle categorie che saranno maggiormente vulnerabili ai cambiamenti climatici. In considerazione della pervasività del discorso individualistico sui cambiamenti necessari nel comportamento della popolazione e del carattere talvolta punitivo del discorso ecologista, ci sono ancora molti ostacoli prima che un’ecologia popolare possa diventare egemonica in campo politico. In questa direzione c’è ancora molta strada da fare. Tuttavia, l’ascesa della retorica contro le éliteall’interno del movimento per il clima, apre nuove possibilità.
La prima condizione per costruire un’ecologia di quelli in basso consiste innanzitutto nell’indicare quelli in alto come i colpevoli dell’inazione di fronte al cambiamento climatico. Questo spostamento della frontiera antagonista, che va dalla denuncia del comportamento individuale alla denuncia dell’assenza di cambiamenti macro-sociali attuati dai governi, è un primo passo verso l’allargamento dell’ecologia alle classi popolari. Resta il rischio, tuttavia, che l’inazione denunciata sia quella dell’assenza di misure che modifichino i singoli comportamenti individuali, come per esempio, una carbon tax – che, sappiamo, è particolarmente impopolare. Dobbiamo dunque andare molto oltre. La sfida è trasformare l’ecologia in modo che essa integri le diverse richieste popolari ostili alla globalizzazione.
Le richieste più forti tra le classi lavoratrici sono, da un lato, la richiesta di protezione dai disordini causati dalla globalizzazione, e, dall’altro, la richiesta di democrazia e sovranità, che consiste nel riprendere il controllo. La pervasività di queste richieste è il prodotto di una lunga evoluzione storica di smantellamento dello Stato sociale e dell’ingresso in un’era post-democratica.
La questione ecologica va affrontata come una questione fondamentalmente collettiva radicata in un destino comune. Ciò contrasterebbe la tendenza a ridurre gli sforzi da compiere ai comportamenti dei singoli. È un modo per evitare un ecologismo d’élite,che si riduce a uno stile di vita individuale, anche se esso rappresenta una preziosa leva “estetica” per far passare il discorso ecologico. È anche strategicamente importante fare affidamento su questa dimensione desiderabile e seducente per provocare dei cambiamenti culturali. Quindi non vi è alcuna contraddizione tra rendere l’ecologia qualcosa di trendy e costruire un discorso di giustizia sociale attorno a questo problema. Quest’ultimo deve ibridarsi con le richieste delle classi popolari di protezione contro i disordini causati dalla globalizzazione.
Inoltre, la sintesi tra l’immaginario cosmopolita e moderno dell’ecologia politica e l’immaginario della protezione sociale del welfare state e della difesa dei prodotti nazionali, è una garanzia contro la costruzione di un nazionalismo regressivo. A questa sintesi deve corrispondere un’ampia coalizione sociale che va dai dimenticati delle periferie a settori di popolazione vincenti nella globalizzazione, anche se questi ultimi non sono necessariamente dei socialisti convinti.
L’emergenza ecologica è uno stimolo a far capire anche a questi settori sociali la necessità di un forte intervento da parte dello Stato. Questa sintesi è possibile articolarla, nel senso comune, partendo dalla preferenza per il locale e i circuiti corti; dalla protezione del patrimonio naturale nazionale; dalla promozione del turismo non inquinante, e quindi a breve distanza, e così via. Si tratta di costruire un legame collettivo. Da qui potrebbe partire la costruzione di un nuovo blocco sociale e di una nuova sinistra per questo millennio.