La guerra fredda novecentesca fu in sostanza una coesistenza pacifica, sia pure sotto l’incubo di una catastrofe nucleare, fatta di competizione e rivalità (tra cui quella per la cosiddetta conquista dello spazio), con una serie di frizioni militari che si risolsero in guerre regionali peraltro devastanti: dalla Corea al Vietnam e oltre. La contesa ideologica era tra due sistemi differenti sul piano politico (le democrazie liberali non sono certo basate sul partito unico, come accadeva nel mondo sovietico, e come avviene tuttora in Cina, in Corea del Nord, o a Cuba), ma piuttosto simili dal punto di vista economico-sociale. Sia di qua sia di là dalla “cortina di ferro”, infatti, si puntava sullo sviluppo delle forze produttive, l’organizzazione del lavoro industriale era ovunque incentrata sulla catena di montaggio, le spese militari erano spropositate da una parte come dall’altra, e della difesa dell’ambiente nessuno si curava. Soltanto riguardo ai consumi individuali, tra il sistema occidentale e i paesi del blocco sovietico, c’era un notevole scarto a favore del primo: e fu soprattutto questo gap, non tanto la richiesta di una maggiore democrazia, a determinare il deperimento e, da ultimo, la dissoluzione del “socialismo reale”, stando alla sua propria autodefinizione.
Quando Enrico Berlinguer utilizzò la formula eufemistica “perdita della spinta propulsiva dell’Ottobre”, quel mondo era ormai ibernato da tempo. Neppure l’ “utopia capovolta” – di cui scrisse Norberto Bobbio al momento della caduta del Muro di Berlino – era una espressione del tutto precisa: perché il “capovolgimento” (cioè l’utopia negativa, detta anche distopia) era quello dell’epoca staliniana; nel 1989 e dintorni si trattava di un post-totalitarismo che, nell’impossibilità di autoriformarsi, veniva trasformandosi – come si è potuto vedere poi chiaramente con il regime putiniano – nella caricatura di una democrazia mediante un nazional-populismo autoritario direttamente derivante dalle latebre della cultura slavofila. Se ci si fa caso, il pensiero politico iperconservatore del tardo Dostoevskij è all’incirca quello della Russia ufficiale odierna, basato sulla sua presunta missione storico-universale e sul carattere rigeneratore della tradizione religiosa ortodossa.
Senza rompere con l’assetto formale di una “democrazia popolare”, la Cina ha percorso un cammino analogo a quello russo. Sotto il dispotismo burocratico del Partito comunista cinese – delle sue differenti cricche e delle loro lotte reciproche – quella sorta di “stalinismo dal volto umano” che fu il maoismo si è sviluppato in un capitalismo alla cinese che, col tempo, ha saputo mostrare un notevole dinamismo. Oggi la Cina è la patria di un feudalismo capitalistico gestito, a livello statale, da famiglie politiche interne al partito per discendenza dinastica, e al tempo stesso dai privati. Prova provata che il “socialismo reale” può evolvere verso forme post-totalitarie, in un certo senso pluralistiche, nel mix di Stato e mercato a livello economico – ma non verso forme di democrazia liberale vera e propria.
Riaprire la pagina della guerra fredda, da parte occidentale, nei confronti di realtà politiche e sociali così particolari – e dal punto di vista ideologico tanto spurie – sarebbe insensato. È palese che la situazione creatasi a Hong Kong, per esempio, con un ampio e persistente movimento giovanile di contestazione, andrebbe seguita con attenzione, cercando di dare il massimo sostegno possibile alle istanze di libertà; così com’è del tutto inaccettabile che la Russia, qualche anno fa, abbia d’un colpo cambiato la carta geografica annettendosi la Crimea. Ma queste e altre situazioni di crisi vanno trattate con le armi diplomatiche della persuasione e della dissuasione; rifare il verso alla guerra fredda, insistendo sul ruolo della Nato o magari ricorrendo alla minaccia di una escalation militare, sarebbe il segno di una scoraggiante mancanza di spirito critico nei confronti del passato.
Sotto il profilo terminologico, del resto, discorrere di autocrazie a proposito di Russia e Cina è sbagliato. L’autocrazia è un regime assolutistico per diritto divino (lo era, infatti, la Russia zarista), mentre qua parliamo piuttosto di un nazional-populismo autoritario – la Russia di Putin –, con omicidi di Stato e quant’altro (che sono comunque altra cosa dalle impiccagioni esemplari degli oppositori, se non altro per il fatto di essere realizzati ipocritamente in segreto), fondato su una certa interpretazione della “sovranità popolare”, intesa in modo carismatico-plebiscitario con elezioni più o meno falsamente libere. Oppure – nel caso della Cina – si tratta di un’evoluzione post-totalitaria guidata pur sempre dal partito unico, in una direzione liberista ma non liberale nel senso della democrazia politica.
Ora, che cosa ha da opporre l’Occidente a tutto questo? Scivolate di tipo nazional-populistico ci sono, e ci sono state, anche da questa parte: basti pensare a Trump. Nei confronti di questo, Biden, che è molto meglio, a dire il vero è una sorta di minimo sindacale. Insistere sui “diritti umani”, quando si hanno in casa uccisioni su uccisioni a sfondo razzista, oppure quando non si è riusciti ancora a risolvere quello stravolgimento del diritto che si chiama Guantánamo (e a chiedere scusa per questo), beh, non è qualcosa a cui si possa dare credito. Se si dicesse unicamente “attenzione, cari partner occidentali, la Russia e la Cina potrebbero farci le scarpe sul piano del commercio globale e su quello dell’influenza planetaria, portandoci poi a una guerra mondiale”, ciò sarebbe più realistico – ma avrebbe, appunto, il difetto di essere puro realismo politico, perfino un po’ sovraeccitato dall’ansia.
Ritorniamo così a un punto che ci è caro (lo stesso per cui, nel nostro piccolo, abbiamo dato vita a questa esperienza di giornalismo online). Non è la democrazia liberale in quanto tale che l’Occidente ha da opporre ai post-totalitarismi in tutte le loro forme, ma la sua storia, rinnovata nel presente, di un socialismo democratico come correzione costante della democrazia liberale dall’interno. Un “sogno occidentale” (per non riferirci, in maniera ristretta, al “sogno americano”) potrà riattivarsi – nel senso egemonico-planetario di quello che i politologi chiamano un soft power – attraverso una ripresa di quel socialismo nella sua ispirazione originaria: quella dell’emancipazione degli individui dalla costrizione del bisogno e da ogni forma di oppressione.
In quest’ottica – sotto il profilo della politica statunitense degli ultimi anni – Obama, e oggi Biden, possono essere visti come un rallentamento del lento declino dell’Occidente contemporaneo, laddove Trump ne era un’accelerazione; ma solo Sanders ne avrebbe rappresentato (forse) l’inversione di tendenza.