(Presidente dell’Associazione nazionale magistrati) Se autonomia e indipendenza fossero privilegi dei magistrati, oggi potremmo a buon diritto chiederci se questo ceto di funzionari meriti ancora un trattamento di così grande favore. Troppi scandali, troppe vicende dai contorni poco chiari, troppi conflitti tra uffici giudiziari stanno costellando questo periodo di confusione e disorientamento per la pubblica opinione. La fiducia collettiva verso la magistratura registra più che una battuta d’arresto; i sondaggi la danno in calo e l’orizzonte non sembra annunciare il sereno.
La situazione è di crisi e impone anzitutto una presa di coscienza dei problemi da parte della stessa magistratura, per evitarne sottovalutazioni che abbiano anche solo il sapore di volere nasconderli sotto una coltre di burocratica indifferenza, in attesa che l’attenzione collettiva sia prima o poi distratta da altro e che possano essere dimenticati; perché tutto possa continuare come prima. La reazione deve essere decisa e per nulla autoindulgente. La magistratura ha bisogno di recuperare il terreno perduto: deve dimostrare di aver ben chiaro che il fine ultimo a cui ogni sforzo e ogni energia vanno indirizzati è la tutela dei diritti e il rendere giustizia, compito tanto difficile quanto essenziale.
E però, a quanti oggi dicono a gran voce che la misura è colma, che la risposta ai guasti di un sistema giudiziario fiaccato dal correntismo e dal carrierismo debba essere radicale, che essa debba passare addirittura per consultazioni referendarie (invocate pur se l’azione riformatrice del governo e del parlamento mostra di voler esser rapida); a tutti costoro va ricordato che i beni primari dell’autonomia di azione e dell’indipendenza da ogni assoggettamento gerarchico non sono regali di cui si possa essere privati senza che la stessa tenuta del sistema costituzionale sia messa in serio pericolo. È per questa ragione che, tra le tante proposte che oggi vengono avanzate nell’intento di riassestare un sistema che ha mostrato più di qualche crepa, non possono essere guardate con favore quelle che, per apparire energicamente risolutive, mostrano di non temere la messa in discussione di un consolidato assetto di garanzie costituzionali.
Se non si tiene a mente che autonomia e indipendenza sono pre-condizioni di una giustizia all’altezza delle attese in una società democratica, si corre il rischio di bollare come timide e incerte le proposte riformatrici che fanno i conti con la compatibilità costituzionale e di valutare come coraggiose e potenzialmente efficaci quelle che sembrano ignorare questa preliminare necessità.
In tal modo si cerca di sfruttare una emozione collettiva – quanto reale o amplificata mediaticamente non importa – per un disegno di mortificazione della presenza del giudiziario, giudicata troppo ingombrante, quasi tirannica nei confronti delle altre istituzioni, specie di quelle elettoralmente legittimate dal consenso popolare. E qui l’arma referendaria può essere vista come la giusta risposta di popolo alle intemperanze e agli sconfinamenti di una istituzione che, in nome del popolo, esercita la sua alta funzione, ma che dal popolo non riceve direttamente alcun mandato. In una ricostruzione pasticciata delle architetture costituzionali della nostra democrazia il più che fondato timore è che si invochi un voto popolare per imbastire riforme che, ai mali di oggi, aggiungano squilibri assai più pericolosi.
La giustizia è quindi irriformabile?
No, non è questa la domanda da fare di fronte a queste obiezioni. A volte viene formulata con una certa abilità retorica nel tentativo di svilire, nel paradosso del “non si può fare nulla”, la posizione di cautela riformatrice, additandola, se espressa dalla magistratura, come esempio di corporativismo conservatore.
È piuttosto il tempo della responsabilità. La crisi del Paese ha proporzioni talmente vaste da imporre a tutti un atteggiamento realmente costruttivo. Le parole di inizio anno del presidente della Repubblica sul tempo dei costruttori, capaci di porre le basi di una nuova stagione di prosperità e sviluppo, non possono essere dimenticate.
C’è molto da fare per migliorare il servizio giustizia, e l’uscita dalla eccezionale crisi segnata da mesi di pandemia può essere una occasione irripetibile. Non si può sprecarla inseguendo vecchie logiche di contrapposizione tra politica e magistratura che hanno ingabbiato ormai da troppo tempo il dibattito pubblico su temi essenziali per l’innalzamento della qualità della nostra democrazia.
Che i magistrati sbaglino, che gli scandali possano coinvolgere anche loro, le dirigenze associative, che non esistano poteri intoccabili o immuni da colpe e da cadute, è un fatto. Non lo si nega né lo si ridimensiona se si avverte il bisogno di richiamare l’attenzione di tutti a che il racconto delle vicende dell’ultimo periodo – dall’affare Palamara, alla cosiddetta loggia Ungheria, al processo Eni a Milano, ecc. – non sia costruito intorno alla conclusione, spacciata come inevitabile, di una irreversibilità sistemica delle degenerazioni di potere.
Le responsabilità dei singoli, se esistenti, devono essere accertate. Ma esse travolgono il sistema nel suo complesso? E non è certo nel luogo comune della stragrande maggioranza dei magistrati che quotidianamente e in silenzio operano che bisogna cercare riparo. Non perché esso non risponda al vero, ma, ancora una volta, per l’esigenza di smarcarsi da vecchi schemi e contrapposizioni, sperando che il tempo a venire potrà essere affidato a coloro che, con visione di lungo periodo e reale intento cooperativo, vorranno porre al centro della riflessione i diritti e le garanzie delle persone e non gli equilibri di forza tra pezzi della classe dirigente.
Se questo sarà, la magistratura associata non farà mancare il suo leale contributo di idee e di esperienze, senza condizionamenti di interessi particolari. Su questo fronte giocherà interamente la sua credibilità e il suo futuro.
[Come “terzogiornale” ci siamo già occupati dell’argomento qui e qui]