Era prevedibile che qualche controversia interna ai 5 Stelle sarebbe stata l’occasione per una resa dei conti. Ora i nuovi sviluppi portano a un profilo d’ordine, e si notano forme di polverizzazione e accaparramento della presenza politica. Ricapitolando. La piattaforma digitale Rousseau, gioiello ormai datato, appartiene a Casaleggio junior, che non permetteva di usarla e si rifiutava di condividere nomi e indirizzi dei partecipanti, anche perché era aperta la questione di un debito, accumulato per pagamenti dovuti dagli eletti. Aspetti imbarazzanti, per una formazione che ha messo sulla sua bandiera le regole, la trasparenza e il rispetto della parola data.
Nel movimento si è aperta una questione di rappresentanza, aggravata a livello legale dall’intervento dell’autorità giudiziaria civile. Conte voleva diventare rappresentante, Di Maio non lo era più, Crimi non era in regola per ripartire. Come triste corollario della lite, si è vista la nomina processuale di un curatore: un dettaglio, certo, ma che ha avvicinato la diatriba al clima che si respira nella canzone di un altro Conte famoso, Paolo. Al bar Mocambo, si sa, c’è il curatore fallimentare, quello che sembra un buon diavolo e ti offre anche un caffè. Insomma, come metodi, somiglia più a una storia di immobilismo sospettoso uscita dalla provincia italiana, che a un progetto per rifare il paese.
La cosa si complica con un altro intervento, quello del garante per la protezione dei dati personali, un’autorità, ma non giudiziaria. E questa è l’Italia dei mille poteri, delle agenzie, dei comitati e dei tavoli. Quando non si riesce a far funzionare la politica si corre in tribunale, e se non basta ci sono i “paragiudici”. I 5 Stelle erano vistosi giustizialisti, diventano burocratisti: se non bastano le toghe, ci si rivolge alle grisaglie. Gli uffici del garante non sono l’ideale per risolvere controversie su un partito, ma tant’è. E poi, oggi la questione dei dati entra dappertutto: c’è chi vuole difenderli, chi cancellarli e chi semplicemente metterci le mani.
L’obliquo intervento imprime un’accelerazione imprevista, ma neppure il provvedimento del garante è risolutivo sino in fondo. Come in ogni storia di conflitto e di lusinga, di pugni e di tasche, qualcosa si prende e qualcosa si dà. Il credito di Casaleggio non era campato per aria – e quelli che non l’avevano pagato non ne escono bene – se alla fine, almeno in parte, chi si era rivolto al garante ha messo mano al portafogli. Se Casaleggio ha avuto 250.000 euro, significa che il valore di un appartamento ha permesso la ripartenza di un movimento politico. In fondo, c’è chi ha cominciato con meno e chi ha finito lasciando un buco più grosso. I dati hanno diritto a tutela, ma i creditori anche e il compromesso si trova.
È un difetto d’impostazione iniziale dei 5 Stelle, aver pensato che la politica potesse stare in uno schermo, in un click, in una clausola. Ecco il vincolo di mandato, meglio col limite ai mandati successivi; ecco l’iscrizione a una piattaforma; ecco la contrattualizzazione del consenso (come precedente, nel 2001, il turpe “contratto con gli italiani” di Berlusconi). L’ambizione di rifare la democrazia con le clausole di un formulario è fragile e nevratile come le smanie forcaiole, destinate a sedersi in poltrona (da ultimo, Di Maio e le sue scuse a un amministratore pubblico, assolto ma non limpido).
Queste furberie non solo non funzionano, ma naufragano in violazioni spudorate, ripicche, transazioni chiuse al tira e molla perché tutto s’accomoda. Si grida contro i condoni e le amnistie, poi non si pagano i debiti – magari modesti, per la verità, e basati su regole cervellotiche che sembrano fatte apposta per litigare – e infine si paga o si lascia pagare una quota. Si comincia con grandi ambizioni, slanci da cattedrale gotica, si finisce in bottega.
La convocazione di un’assemblea per il rilancio del movimento e la futura Carta dei principi e dei valori hanno antefatti prosaici. Su queste basi, l’ex presidente del Consiglio parla di riforme costituzionali, di riduzione delle tasse e di ambizione all’elettorato moderato. E Di Maio, con convinta adesione al metodo partecipativo e grande disponibilità agli imprevisti, dichiara che bisogna “blindare” Conte alla guida.
Il senso di tutto questo è che il movimento si libera di Casaleggio e di quell’originario vizio di forma? Più modestamente, il senso è che risolve un contrasto, un problema di cronaca, ma non rifonda la sua storia. All’inizio si fece dipendere l’adesione dei militanti e la selezione del personale da una piattaforma imprenditoriale, con ricadute che parlano di cooptazione, sanno di opaco e lasciano un’impronta classista e aziendalista. Anche quel certo modo di essere ecologisti un po’ così, informali un po’ così, flessibili un po’ così, ma popolari tanto così, stava nel gioco di Internet che risolve, che permette di consultare la base, che impedisce la formazione di un notabilato perché guai alle deleghe.
Saltato il meccanismo faticoso della mediazione politica, può accadere di tutto. Da questo punto di vista, la piattaforma che funziona, quella contesa e quella infine costretta – con le buone e con le cattive – a mollare l’osso dei dati degli iscritti, sono tappe intercambiabili che parlano la stessa lingua. L’arnese è sempre un serbatoio di dati in cui tutti possono dire, ma di cui uno solo possiede la chiave, con buona pace per la fede nella rete. La democrazia diretta e il suo mito sul lavoro partecipativo reticolare, dal basso, paritario, alla fine si risolve nel fatto che un padroncino e una cordata si contendono un malloppo di indirizzi, per poi trovare un accordo dopo una lite e un assegno. Il provvedimento lo emette un ufficio che non è neppure un’autorità giudiziaria, ma una struttura tecnica funzionariale molto romana (le élite, ohibò!), col vertice di nomina politica (la casta, aiuto!). L’assegno invece è frutto di una contrattazione.
Quello, se i dati che circolano sono esatti, riguarda debiti che alla fine sono stati pagati per metà. Su questo, Giuseppe Conte dice “i debiti non si discutono, si onorano”, e c’è da credere a un avvocato professore. Sembra però che, rispetto alle richieste, quei debiti per l’altra metà restino insoluti: cioè, si è fatta politica e ci sono state le solite furberie sui costi. Se l’ombra di Bettino Craxi facesse ballare il tavolino con un “lo dicevo”, purtroppo, si potrebbe dargli torto solo sui numeri e sulla responsabilità penale, non sul problema di fondo. Anche in cima alla piramide di garofani, la sua boria non giunse mai a dargli il titolo di garante; ma il punto è che la voglia di padrone trova sempre il modo di far danno.