La barista mi chiede: “Cosa prende giovanotto?”. Dopo un attimo di stupore (ho sessant’anni passati) ordino un caffè e mi guardo intorno. Nel sonnacchioso locale della periferia genovese sono effettivamente il più giovane, l’età media degli avventori pare sui settanta-settantacinque anni. Ben conservati, segaligni e attivi come sono da queste parti gli anziani, ma indiscutibilmente vecchiotti. Nulla di straordinario per la verità, un quadro simile lo si vede non solo nei locali, ma per la strada, sugli autobus. Una demografia implacabile sta facendo crescere l’età media riducendo progressivamente il numero degli abitanti della regione. Nel 2020, ci dice l’Istat, la Liguria è la regione del nordovest che ha accusato il calo demografico maggiore: -9,9%. I residenti sono attualmente un milione e 509mila. I dati peggiori sono stati registrati nelle province di Savona (-11,3%) e Genova (-11,2%). I liguri sono al primo posto in Italia per l’età media, quasi cinquant’anni (la media nazionale è di quarantasei). I dati si accavallano e si sommano, mostrando tutti il medesimo trend: tasso di mortalità al triplo di quello di natalità, età media della maternità più alta d’Europa (oltre i trentadue anni), solo 1,2 figli per donna. Sebbene a un livello più generale la contrazione delle nascite e l’invecchiamento della popolazione sia una tendenza nazionale, la Liguria ha vissuto finora una crisi demografica eccezionale nel panorama europeo: oggi si trova a essere, insieme alle Asturie, l’unica regione in tutta l’Unione europea con una presenza di residenti entro i trentacinque anni inferiore al 30%, e l’unica in assoluto in cui il tasso di residenti con settantacinque anni e oltre supera il 15%.
Una delle città più anziane del mondo
Nel capoluogo, a Genova, una delle città più anziane del mondo, si contano oltre 160.000 abitanti in età avanzata e spesso avanzatissima, 60.000 dei quali vivono da soli. Quasi 100.000 sono gli ultra settantacinquenni. Una piramide dalla popolazione drammaticamente squilibrata, che si va gonfiando verso l’alto, dato che i bambini tra zero e quattro anni sono poco più di 20.000. La situazione allarmante che queste cifre presentano non rappresenta certo una novità, ma è l’espressione più recente di un andamento che si perpetua ormai da oltre un trentennio, senza conoscere significative inversioni di tendenza. Anche a livello simbolico non si scherza, in città, lì dove un tempo c’era una scuola elementare, è stato collocato l’ufficio comunale che si occupa delle pratiche funebri.
I motivi di quanto sta accadendo sono molti. Da un lato c’è una storica tendenza delle città, in particolare Genova, a crescere solo in virtù di flussi migratori, non per un saldo nascite morti positivo.
Tendenze storiche e crisi economica
Lo faceva rilevare nei suoi saggi uno studioso che lavorò come demografo del Comune, Paolo Arvati: la città, già ai primi del Novecento, cresceva quasi esclusivamente in virtù delle continue migrazioni dalle campagne circostanti e dal poverissimo entroterra ligure. Una scarsa propensione alla riproduzione che ha remote radici storico-culturali, dunque. D’altronde c’è la quarantennale e tuttora perdurante crisi economica, frutto di un passaggio al postindustriale mai veramente digerito, che ha prodotto una fuga dei giovani in cerca di opportunità lavorative secondo le dinamiche tipiche delle città che si contraggono.
Come conseguenza di scelte politiche e amministrative errate, ormai da oltre un decennio, chi ha capacità da vendere o semplicemente il coraggio necessario per partire se ne va, e sono stati migliaia negli ultimi anni. Una fuga che contribuisce ad accelerare la classica spirale verso il basso che caratterizza le shrinking cities,tanto da avere fatto assurgere la città alla discutibile gloria di rappresentare un case study spesso menzionato nei manuali internazionali di sociologia urbana. Genova aveva quasi 900mila abitanti nel 1971 e oggi naviga sotto i 550mila, mentre alcune prospezioni danno addirittura una città di poco più di 350mila abitanti al 2050. Il declino demografico sarebbe stato anche peggiore se non ci fosse stato un rallentamento grazie alla crescita del numero dei residenti stranieri, ma il saldo migratorio è insufficiente per fermare la riduzione e l’invecchiamento della popolazione. Oltre alla crisi economica, e alla mancanza di lavoro, un ulteriore fattore che spinge in direzione della denatalità è certo rappresentato dalla insufficienza dei servizi adeguati alla prima infanzia: l’offerta complessiva tra pubblico e privato si ferma a un terzo della domanda. L’Istat parla a questo proposito addirittura di un “desiderio di maternità insoddisfatto e scoraggiato”.
La peste bianca
Insomma il fantasma della peste bianca, come lo storico francese Pierre Chaunu chiamò, con un filo di apocalittismo l’inverno demografico, aleggia su tutta la regione e in particolare sul capoluogo.
Personalmente, non sono del tutto convinto del fatto che le spiegazioni in chiave storica, di crisi economica e di assenza di servizi diano completamente ragione della peste bianca. Ritengo invece che la scelta di non avere figli tocchi una serie di componenti profonde, che non sono del tutto razionali. Dietro il lento suicidio dei liguri, intravedo uno smarrimento del senso del futuro, una crisi di identità, di valori e di speranze, una rottura della continuità generazionale, una infelicità generalizzata. Una condizione di cui ci parla anche l’uso pervasivo degli psicofarmaci in regione e l’aumento dei casi di malessere mentale e di disturbi depressivi, la cui incidenza secondo l’Ordine degli psicologi è molto oltre la media nazionale. È una crisi dai molti volti, di cui la noluntas riproduttiva è solo uno degli aspetti più eclatanti, ma che investe le identità personali e collettive.
Dall’andamento delle curve demografiche emerge dunque tutto… l’inverno del nostro scontento.