Beato il popolo che non ha bisogno di referendum, verrebbe da dire di fronte all’offensiva salvinian-radicale. I sei quesiti referendari in materia di giustizia presentati dalla strana (ma non troppo) coppia Partito radicale-Lega sono, infatti, un concentrato di populismo giudiziario e un tentativo di assaltare l’autonomia della magistratura. Dalla responsabilità civile dei giudici alla separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti, si può ritrovare il grande repertorio delle battaglie berlusconiano-piduiste. I quesiti sono stati depositati ieri presso la Corte di cassazione, si apre dunque il lungo iter che potrebbe portare gli italiani al voto in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno del 2022.
La strada però è ancora lunga: dal 2 luglio i promotori avranno novanta giorni di tempo per raccogliere almeno cinquecentomila firme sotto ogni quesito. Noi ci auguriamo che falliscano – contrariamente a Goffredo Bettini che, clamorosamente, ha invitato il suo partito a “non chiudersi” perché questo referendum, a suo dire, merita attenzione. Sostiene Bettini che “la giustizia è in una situazione di evidente crisi e che occorrerebbe una riforma forte e giusta, in grado di superare le difficoltà che la rendono inefficace”. È stupefacente che si invochi una riforma per mezzo del voto popolare, una totale distorsione di questo strumento chiamato ad abrogare una norma e non a definire un insieme organico di interventi come vuole, appunto, una riforma, in questo caso anche estremamente tecnica.
È inoltre avvilente la resa incondizionata alla propaganda salviniana da parte di un leader democratico come Bettini che, da quel che sappiamo, non è certo il solo a pensarla così nel suo partito. C’è poi la questione di merito. Che la giustizia vada riformata è pressoché un refrain, e non si sta qui a discettare su questo. Ci basta l’ombra di una probabile loggia massonica (non ancora accertata, ma la lista di “fratelli” c’è!) per capire quel che non va. E poi l’andazzo delle cose dentro i tribunali, dove un giudizio può aspettare anni, di sicuro molti di più della media europea. Un processo civile che attraversi tutti e tre i gradi di giudizio (tribunale, appello e cassazione) dura in media otto anni: servono 514 giorni, in media, per concludere il primo grado, quasi mille giorni (993, per la precisione) per il secondo e ben 1.442 giorni per il terzo. In totale, dunque, poco meno di tremila giorni (2.949), corrispondenti quasi esattamente a otto anni. La media dei Paesi membri del Consiglio d’Europa è invece di 233 giorni in primo grado, 244 giorni in secondo grado e 238 in ultima istanza. In totale, dunque, si arriva a poco meno di due anni (715). Un po’ meglio per la giustizia penale ma non troppo: qui un processo che attraversi tutti e tre i gradi di giudizio dura in media tre anni e nove mesi (310 giorni in primo grado, 876 in secondo e 191 in Cassazione), contro la media europea di 138 giorni. (Dati tratti dal rapporto 2018 dell’European Commission for the Efficiency of Justice relativi al 2016). Siamo comunque tra i peggiori nella Ue.
È lì il cuore delle disfunzioni, la lentezza della giustizia colpisce i diritti di ciascuno di noi e la funzionalità del sistema: cosa c’entra con questa vera piaga quella roba proposta dai quesiti salviniano-radicali? La responsabilità civile dei giudici a fronte di dolo o colpa grave; la separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti; la limitazione della possibilità di disporre la custodia cautelare a carico di un indagato; l’abrogazione dell’intero testo unico in materia di non candidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo – la cosiddetta legge Severino, quella che nel novembre del 2013 causò la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi; ancora, la limitazione dell’organizzazione in correnti dei magistrati per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura; il diritto di voto ai membri non togati dei consigli giudiziari, cioè agli avvocati, che attualmente non possono partecipare alle discussioni e alle deliberazioni riguardanti i magistrati, per esempio circa la loro preparazione o comportamento. Ci sono molte cose che devono cambiare nel nostro sistema giudiziario, ma pensare che queste proposte siano anche solo “interessanti” è inconcepibile per chi tiene ai valori costituzionali. Lì dentro c’è solo odore di assalto all’autonomia della magistratura.