Brucia Bogotà, brucia Cali, bruciano le periferie misere delle grandi città, brucia l’intera Colombia. La polizia militarizzata spara e uccide, i gas lacrimogeni accecano la folla e disperdono i cortei, gli elicotteri militari rombano a bassa quota sui quartieri popolari. È un panorama di macerie quello che i pochi inviati dei grandi giornali e i mille cronisti di strada descrivono nei loro dispacci quotidiani. Quella che era cominciata come una protesta spontanea – e come una reazione alla mattanza della pandemia e alla miseria senza speranza dell’intero Paese – si è trasformata giorno dopo giorno in una guerra dichiarata tra il potere e il popolo.
Una guerra dichiarata dal governo centrale e dalla sua cerchia di dignitari in doppio petto e in uniforme. Il presidente Iván Duque ha di fatto smentito ogni trattativa, accusando il “terrorismo urbano finanziato dalla mafia del narcotraffico”, mentre l’uomo nero della Colombia – l’ex presidente Álvaro Uribe – chiama alle armi i buoni cittadini contro la “rivoluzione molecolare dissipata”: una formula bizzarra coniata da Alexis López Tapia, semisconosciuto giornalista cileno neonazista, oggi reclutato come ideologo dalla ultradestra colombiana.
L’impronta complottista (che i giornali di Bogotà definiscono cospiranoica) è del resto trasmessa ai vertici politici direttamente dal quartier generale del “trumpismo” nordamericano. La diagnosi del senatore repubblicano statunitense Marco Rubio è degna dell’ex presidente “The Donald”: “Dietro la violenza che sconvolge la Colombia – scrive Rubio – si indovina lo sforzo orchestrato per destabilizzare il governo democratico da parte dei movimenti narco-guerriglieri di sinistra e dei loro alleati del marxismo internazionale”.
Guerra senza quartiere, dunque, tra i giovani che muoiono sotto il fuoco degli agenti e il palazzo del potere che ordina la repressione. Scrive sul Guardian Elizabeth Dickinson, ricercatrice dell’International Crisis Group: “C’è un gap enorme tra le strade della protesta e l’establishment politico. Si tratta di due pianeti differenti e ostili che non si intendono perché non parlano la stessa lingua”. La pandemia – che ancora infuria e che sinora è costata oltre 75mila morti – ha squarciato il velo di ipocrisia che, fino a ieri, oscurava la realtà di un Paese diviso in due, squassato da una profonda linea di frattura tra ricchi e poveri. All’interno di uno dei più lunghi lockdowndel pianeta, il numero dei colombiani che versano in estrema povertà è salito lo scorso anno a quasi tre milioni di persone, a cui vanno aggiunti i quasi due milioni di profughi che si sono stabiliti nel Paese fuggendo dal vicino Venezuela.
Oggi, dopo settimane di scontri di piazza, la protesta e la violenza si sono propagate oltre il cerchio della capitale, arrivando a investire la terza città della Colombia, Cali: una metropoli di oltre due milioni di abitanti, capoluogo della Valle del Cauca, porta della Costa pacifica del grande Paese. L’allarme viene dai militanti civili e dagli organismi per i diritti umani. Scrive Leonardo González del gruppo Indepaz: “Fino a ieri nei quartieri popolari di Cali le famiglie esponevano un telo rosso sulle finestre di casa per segnalare l’estrema povertà, a volte la fame. Oggi nella nostra città – e non solo nei quartieri popolari – ci sono blocchi stradali, comincia a scarseggiare il cibo, i prezzi degli alimenti sono saliti del duecento per cento. Circola molta gente armata, in Colombia sono censiti due milioni di armi illegali, e Cali è una delle città in cui ce ne sono di più. Si apre una questione di allarme democratico”.
Quello che sta succedendo oggi in Colombia è chiaro ormai a tutti gli organismi internazionali. L’Onu e l’Unione europea hanno condannato la brutalità della polizia e chiedono che i responsabili della repressione rispondano dei loro atti. I funzionari delle Nazioni Unite operanti sul terreno sono testimoni “dell’uso eccessivo della forza da parte della polizia”. La portavoce dell’ufficio Onu di Bogotà, Marta Hurtado, denuncia: “Gli agenti utilizzano munizioni reali e infieriscono sui manifestanti”. E tuttavia il governo di Iván Duque insiste sulla ridicola versione del complotto del marxismo internazionale sostenuto dal narcotraffico. Così, dalle colonne del País, il giornalista Roberto Mur denuncia la tattica dell’ultradestra di governo capeggiata dall’ex presidente Álvaro Uribe: “L’uribismo cerca di criminalizzare la rivolta cittadina della Colombia”.
Questo gioco al massacro può rivelarsi estremamente pericoloso. La Colombia è un paese fragile: nel 2016 lo storico accordo di pace tra il governo e la guerriglia pose fine a decenni di guerra civile (la violencia) e a una lunga stagione di sangue che costò la vita a 260mila persone e costrinse oltre sette milioni di colombiani a lasciare le loro case e i loro villaggi. Oggi quelle ferite sono ancora aperte e l’incendio appiccato per le vie di Bogotà nelle scorse settimane potrebbe precipitare il Paese in una nuova stagione di terrore e anarchia.