In queste settimane si sono sviluppati polemiche e dibattiti sulla patrimoniale e sulla tassa di successione. Le tesi opposte sono note. Ma fare un’indagine sociologica sui ricchi, su cosa pensano della ricchezza non è usuale. Merita dunque attenzione la ricerca condotta da Giulio Marcon su “La ricchezza in Italia”; Marcon, oltre che indagare sulle dimensioni della ricchezza nel nostro Paese, ha selezionato e intervistato ventisei “ricchi”, uomini e donne con un’elevata ricchezza personale (almeno un milione di patrimonio netto) con posizioni di rilievo nell’economia e nella finanza italiane.
Gli intervistati sono stati scelti sulla base di alcune caratteristiche: i profili professionali e imprenditoriali, la diversità generazionale, di genere e territoriale. Sono state intervistate persone dell’industria manifatturiera e della finanza, del mondo privato e del pubblico, del settore immobiliare e della distribuzione, del mondo della moda e dell’alimentare, esponenti delle libere professioni ed ereditieri.
Non chiamateci “ricchi”
Prima sorpresa, i ricchi non amano definirsi tali: diversi intervistati hanno manifestato una certa ritrosia a farsi definire ricchi, e per attenuare questa identificazione rivendicano un percorso personale scandito da impegno, sacrifici e competenza, oppure preferiscono essere definiti come benestanti o come persone agiate. Solo in pochi casi le persone hanno parlato di sé senza imbarazzo come “ricchi”. Un intervistato afferma che “la ricchezza è una percezione molto soggettiva. Conosco una signora che, non potendosi comprare una nuova Porsche (ne ha già una), si sente meno ricca di altri”. Alcuni contestano la definizione di ricco: “Con un milione (soglia suggerita dalle statistiche del Crédit suisse) non sei certo un ricco globale: noi non dobbiamo guardare i millionaire, ma i billionaire”. Qualcun altro va a caccia di farfalle: “Quello che è importante, più della ricchezza monetaria è la ricchezza interiore”. D’accordo.
Ovviamente per molti di loro il merito e le competenze vengono definite come una componente fondamentale per diventare ricchi, uomini e donne di successo: “Competenza e merito contano ancora molto. Considerate le persone che intervistate voi. C’è forse qualcuno che considerate fesso? (l’uso di questa espressione è di per sé significativo – NdR). Sono tutte persone di spessore. Anche quelli che hanno deciso di vivere in un mercato protetto, quello delle concessioni, hanno comunque delle competenze e dei meriti” (solidarietà di classe!). Qualche dubbio emerge per quanto concerne il settore finanziario. Una imprenditrice del settore tessile afferma che la ricchezza, nel secondo dopoguerra, con la produzione di beni di largo consumo, era più fondata sul merito, sulle abilità e capacità imprenditoriali, mentre oggi – nel mondo dominato dalla finanza – contano altri fattori. Siamo in Italia dove “tanta gente diventa ricca grazie alle relazioni politiche”. E spesso nel mondo della finanza diventi ricco perché “ti permettono di fare lo strozzino”.
Per fortuna qualcun altro è più disincantato e ammette che solo il venti per cento dei ricchi sono diventati tali per merito, mentre l’altro ottanta è ricco solo per la discendenza. Un intervistato lucidamente afferma che: “La nascita è uno dei fattori fondamentali della ricchezza; anzi è il fattore principale: si eredita non solo il patrimonio, ma anche un mondo di relazioni, un mondo di cultura, di educazione e formazione, che proietta automaticamente in un ambiente dove è più facile restarci”. L’intervistato numero 25 afferma: “Nella famiglia ricca c’è maggiore possibilità di ricevere una istruzione di qualità, e questo conta”. Un altro ricorda: “Quando quarant’anni fa morì mio padre, proprio in questo ufficio trovai la sua agendina. Avevo 23 anni. Cominciai a scorrere la sua agendina e iniziai a chiamare nelle settimane successive le persone della rubrica, sia quelle che già conoscevo, sia le altre. Avevo capito che mio padre aveva curato le relazioni e le relazioni servono, contano moltissimo”. Ma non sempre è così. L’intervistato 24 afferma: “Mi sono nutrita di Olivetti, ma morto lui, nessuno è riuscito a continuare la sua opera e l’azienda Olivetti è rapidamente declinata”.
Per alcuni intervistati l’origine della ricchezza può avere dei connotati negativi quando è legata a rapporti illeciti od opachi con la politica, a posizioni di rendita nella gestione di concessioni grazie a discutibili commistioni con le autorità di regolamentazione, all’evasione fiscale oppure alle attività criminali: “Bisogna ricordare che gran parte della ricchezza in Italia nasce dall’evasione fiscale. I ricchi che hanno un reddito dichiarato e visibile hanno un certo pudore. E poi ci sono gli altri che incontri in barca che dichiarano pochissimo e ti chiedi come fanno a permettersela”.
Stili di vita, investimenti ed esercizio del potere
Il tema del consumo vistoso è ricorrente. Si tende a distinguersi dal nouveau riche. Un editore afferma: “La nostra rivista si distingue da altri periodici come Class e Millionaire, riviste del ‘vorrei, ma non posso’, del bottegaio o del parvenu che vuole comprarsi la Ferrari, ma non se lo può permettere. Noi vogliamo occuparci della ricchezza in modo serio…”. Un altro afferma di rimando: “Una parte delle classi imprenditoriali ha fatto tanti danni: dalle famose sette ville di Berlusconi in Sardegna al figlio dell’imprenditore che si fa riprendere mentre va a sbattere con la Ferrari su una rotatoria. Poi ci sono i ricchi che a cinquant’anni fanno i balletti su Instagram e ti chiedi se hanno qualche problema. Noi viviamo in modo molto sobrio, il denaro rimane in una unica holding che controlla tutto… Facciamo tanta filantropia”.
Un altro intervistato dice di avere un rapporto difficile con la ricchezza che gli crea disagio. Anche per questo ha deciso di fare volontariato nei paesi più poveri e investire solo nella finanza etica e sostenibile. L’intervistato numero 26, che ha avuto una grande eredità, oggi promuove anche attività sociali con una sua fondazione.
Gli investimenti principali per chi promuove attività economiche sono nelle loro imprese e nelle attività che portano avanti. Gli investimenti finanziari rappresentano però una costante per tutti. Pochi dichiarano di investire in beni rifugio: orologi d’oro, opere d’arte e barche di lusso. La finanza per quasi tutti gli intervistati è diventata un canale preferenziale, seppur distorto e pericoloso, di accumulazione della ricchezza: “È molto più facile fare i soldi con la finanza che con un’azienda dove su cento milioni posso averne cinque al massimo dieci di profitto – ma devo fare una fatica bestiale e ci vuole tempo – mentre, se metto gli stessi soldi in Borsa, ne porto a casa sei o sette volte tanti senza battere ciglio”.
Altri ancora hanno invece etichettato come “strozzinaggio”alcune attività finanziarie come quelle collegate alla gestione speculativa dei Non Performing Loans (NPL, i prestiti deteriorati), auspicandone una gestione pubblica o delegata a poche banche autorizzate. Ma c’è anche chi afferma che non c’è differenza tra finanza buona e finanza cattiva.
La filantropia appare un aspetto significativo (almeno a parole) dell’uso della ricchezza. Ma c’è anche chi smitizza l’esempio della filantropia statunitense: “Il giving back è dettato certamente da una componente calvinista, ma anche dalla voglia di mettersi in mostra e poi da convenienze economiche e fiscali. La charity è un business. Le charities rappresentano da una parte una fonte di status – reputazione, prestigio –, dall’altra sono funzionali al sistema economico”.
La ricchezza si associa inevitabilmente al potere. Ma pochi ricchi si interrogano sulle responsabilità delle classi imprenditoriali. Lo Stato e l’azione politica sono in genere visti con sospetto anche se, tra gli intervistati, ci sono alcuni ex-parlamentari o ex-ministri. Viene riconosciuto che “in molti settori d’impresa il sostegno della politica è fondamentale: pensiamo al settore dei media, delle opere pubbliche, delle banche”. Molti intervistati fanno parte di organismi come la Trilaterale, l’Aspen Institute, hanno partecipato agli incontri dello Studio Ambrosetti a Cernobbio: tutti luoghi in cui si incontra l’éliteeconomica e finanziaria internazionale. L’intervistato numero 18 ha affermato che è “partecipando alle feste, andando alle cene, giocando a golf, iscrivendoti a un club importante” che si diventa ricchi e si entra a far parte dell’élite, sottolineando come ormai abbia senso di parlare di élite a livello mondiale. L’intervistato numero 10 lucidamente dichiara che “ormai la ricchezza èapolide, siamo alla repubblica internazionale del denaro, una rivoluzione che ha svuotato i parlamenti”, ed è per questo che la sfida si pone in un ambito globale.
Tassare la ricchezza? No, grazie
L’attuale assenza di mobilità sociale viene attribuita a fattori come il mancato riconoscimento del merito e delle competenze, la scarsa qualità del sistema formativo e universitario. Il meccanismo della cooptazione, dell’affiliazione politica, l’esistenza delle reti di relazioni acquisite vengono considerati elementi che ostacolano la mobilità sociale. Solo alcuni ricordano le scelte dei poteri economici e i comportamenti concreti delle imprese che condizionano le possibilità di mobilità sociale.
In quasi tutte le interviste viene riconosciuta la crescita delle disuguaglianze economiche negli ultimi decenni. Per alcuni si tratta una dinamica fisiologica rispetto alle trasformazioni dell’economia, per altri è l’effetto della globalizzazione. Nessuno individua come un problema il rapporto tra concentrazione della ricchezza e l’aumento delle disuguaglianze. “La leva più importante per mitigare le diseguaglianze è l’education (in inglese che fa più in!). Bisogna garantire l’eguaglianza in partenza, all’inizio. Ci vuole equità e meritocrazia”. Anche se si ammette che ci vogliono trent’anni prima di vedere i risultati. “L’unico modo è lavorare su scala globale, cercare di cambiare le regole o di utilizzarle nel modo migliore possibile”.
Quasi nessuno cita lo strumento fiscale, la possibilità di una imposizione più progressiva e la redistribuzione della ricchezza come strumenti decisivi per ridurre le disuguaglianze. È significativo che a fare riferimento a questa possibilità siano soprattutto gli intervistati diventati ricchi attraverso eredità.
Tra gli intervistati emerge una visione prevalentemente negativa del fisco e della sua funzione.
Molti mettono in rilievo l’eccessivo carico fiscale sulle imprese, la produzione e il lavoro e il cattivo uso delle risorse raccolte con le tasse. Per la maggioranza degli intervistati il fisco va reso più semplice, meno pesante per i fattori produttivi dell’economia, meno invadente. Quasi nessuno si sofferma sulla ridotta progressività fiscale, sui vantaggi che il sistema fiscale offre agli alti redditi e ai patrimoni. Solo alcuni evidenziano la grave evasione fiscale nel nostro paese. Il “cattivo uso” delle risorse raccolte con le tasse mette in secondo piano il tema del fisco come strumento di coesione sociale e di redistribuzione.
La tassazione dei patrimoni e delle successioni ereditarie è stata al centro delle interviste, con posizioni generalmente ostili a interventi in questi campi. L’intervistato numero 1 afferma: “Tutte le tasse che ostacolano lo sviluppo dell’imprenditoria dovrebbero essere abbassate. Starei attento a incrementare le tasse in un paese in cui la pressione fiscale è già molto elevata. E starei attento sulla patrimoniale, perché le persone che si vogliono colpire sono anche le più mobili: se tassate troppo se ne vanno”.
Verso la possibilità di un’imposta sui patrimoni le critiche sono molto diffuse. L’intervistato numero 10 sostiene che “per ridurre le diseguaglianze non serve una imposta patrimoniale e non serve nemmeno a ridurre il debito. Una imposta di questo tipo avrebbe l’effetto di indebolire – attraverso la riduzione dei depositi – la solidità patrimoniale delle banche. Avrebbe un effetto negativo sull’economia del paese”.
La tassazione delle eredità – che è stata fortemente ridotta in Italia negli ultimi decenni – incontra resistenze analoghe. È netta l’ostilità dell’intervistato numero 15: “Noi abbiamo giàuna tassazione molto alta. Se dovessimo aumentare le tasse ci sarebbe la fuga dei capitali e delleimprese all’estero, dove si paga la metà di quello che si paga in Italia”. E a proposito dell’imposta di successione: “Passi una vita a creare ricchezza e quando muori arriva lo Stato e ti porta via unaquota importante della ricchezza che hai prodotto. Questo è sbagliato, impedisce che questaricchezza sia investita nella produzione”. Un altro intervistato afferma che: “da molti studi sievince che l’aumento della tassazione sugli asset ereditari non ha mai portato un grande gettito. Sembra più una bandiera di tipo politico che uno strumento di politica economica”. Pollice verso dunque alla proposta di Letta, anche se dobbiamo registrare un parere favorevole: “In Italia la tassa di successione è bassissima. Berlusconi se l’è fatta a sua misura, a suo tempo. Io sarei per aumentarla. È tra le più basse d’Europa”.
Queste le voci dei ricchi. Tutta la prima parte della ricerca è invece dedicata alle dimensioni della ricchezza in Italia. Dati oggettivi che fanno il punto delle ricerche in merito. Assolutamente da leggere qui.