L’Italsider, che poi sarebbe diventata l’Ilva, era un mostro potente e immortale. La famiglia Riva, industriali del Nord, nel 1994 comprò dall’Iri di Romano Prodi l’acciaieria più grande d’Europa, che produceva dodici milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Per loro fu un affare. E la fabbrica si impossessò della città. Riva assunse molti giovani operai, soprattutto della provincia allargata. E investì in attività finalizzate a un consenso sociale nella città.
Diecimila operai diretti e quattromila quelli delle ditte d’appalto. Sembrava un’acciaieria destinata a vivere a lungo, anche perché, fallito il sogno del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro (1970), chiusa l’Italsider di Bagnoli (anni Ottanta), riconvertito il ciclo a freddo in Liguria (anni Novanta), rimaneva solo Taranto come acciaieria a ciclo integrale. Sembrava un destino segnato. I riflettori nazionali erano spenti su Taranto, se non quando salì alla ribalta il sindaco Giancarlo Cito, il leghista del sud.
Erano gli anni in cui Taranto viveva e moriva contemporaneamente. La diossina, i veleni degli altiforni, e poi l’amianto dell’Arsenale militare, e le raffinerie altamente tossiche. C’era un quartiere, Tamburi, che confinava con il deposito in cui venivano raggruppati tutti i minerali che, cotti negli altiforni, si trasformavano in acciaio. Bastava un po’ di vento e Tamburi diventava una moderna Pompei, soffocata e sepolta dalla polvere dei minerali.
Tutto è cambiato quando in campo è scesa a gamba tesa la magistratura. Siamo nel 2012 – e a Taranto inizia la rivoluzione. Gli impianti vengono sequestrati, arrivano i commissari. Le denunce di singoli cittadini, di imprenditori, di ambientalisti hanno costretto la magistratura a intervenire. E il governo ha reagito con un solo obiettivo: ridurre l’impatto dell’iniziativa della procura della Repubblica. È significativo che in questi anni da Palazzo Chigi siano partiti ben dodici decreti legge per salvare l’Ilva di Taranto.
Oggi finalmente è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Taranto che ha condannato i Riva, gli amministratori, i dirigenti aziendali, e anche politici locali (lo stesso presidente della Puglia dell’epoca, Nichi Vendola, che sarebbe intervenuto al fine di “ammorbidire” la posizione dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale). Riconoscono, i giudici, che l’Ilva ha prodotto “un inquinamento devastante per la salute e l’ambiente”.
È stato un processo politico, senza dubbio, quello che si è celebrato durante cinque anni. Si sono scontrate due città. Gli ambientalisti che chiedevano la chiusura del mostro, gli altri che erano convinti che si potesse riconvertire l’Ilva con produzioni a freddo e a basso impatto ambientale.
Taranto merita di essere risarcita per i suoi morti di lavoro e di inquinamento. Con una scelta politica è stata trasformata in un mostro a due teste, un po’ Seveso, un po’ Bophal. Adesso il sindaco del Pd, Rinaldo Melucci, si è rivolto al Tar chiedendo la chiusura dell’area a caldo. E i giudici amministrativi gli hanno dato ragione. Dopo la sentenza di primo grado della Corte d’assise, che ha decretato la confisca dell’area a caldo, ora spetterà al Consiglio di Stato pronunciarsi sullo spegnimento degli altiforni.
La politica, come al solito, è in ritardo. Non è in grado di prendere una decisione. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è stato preso alla sprovvista: “Alla fine uno deve anche capire quale sia il rapporto tra il tempo da aspettare per fare la transizione e la salvaguardia della salute. Io questo ora non lo so”.
Ma Taranto non può più aspettare, e non merita questa indecisione.