Ancora poco e si chiuderanno i seggi nell’ampia parte di Siria in cui oggi si vota per il presidente della Repubblica. Niente elezioni nei territori controllati dai curdi, nel nord-est del Paese, nel corridoio di Afrin, sotto controllo turco, e nella provincia di Idlib, dove vivono milioni di rifugiati interni. Voto possibile ma boicottato a Swaida, la zona dei drusi. Ieri sera i ministri degli esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia hanno ricordato che la risoluzione 2254 delle Nazioni Unite, votata nel dicembre del 2015, ha stabilito un cammino diverso: prima va nominato un governo di transizione convenuto tra il regime e i suoi oppositori politici (esclusi i gruppi concordemente definiti terroristi), poi va riscritta la Costituzione e quindi si va alle elezioni. Inoltre il voto, secondo la risoluzione, deve svolgersi sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il fatto che, a dar manforte agli osservatori di alcuni governi alleati, siano giunti anche quelli bielorussi non rafforza molto la credibilità di questa tornata elettorale. Le due candidature di contorno – l’ex ministro Abdullah Salloum Abdullah e Mahmoud Ahmad Mar’ai, espulso dal partito nasseriano (l’Unione democratica socialista araba) – dicono poco. Rieletto sarà certamente Bashar al-Assad.
Stremato da dieci anni di conflitto, il Paese conta undici milioni di suoi cittadini, su un totale che arrivava a poco più di ventuno, che hanno dovuto lasciare le loro case, profughi all’estero o rifugiati interni, in gran parte nel territorio agricolo del lembo nord della Siria, la provincia di Idlib. Mancano le centinaia di migliaia di vittime, ormai non più contate, gli internati, i circa centomila scomparsi dei quali non si sa nulla da anni – e 630 miliardi di dollari, la cifra stimata come danni materiali del conflitto. Proprio questo sembra il motivo per cui si era scommesso molto sul voto dei siriani fuggiti all’estero. Un’alta partecipazione al voto avrebbe confermato Assad come uomo della possibile ricostruzione. Ma il voto non è stato autorizzato né in Germania né in Turchia, quindi il banco di prova è stato il Libano. Ma nonostante l’enorme sforzo a sostegno di Damasco delle autorità di Beirut, si sono recati all’ambasciata siriana per votare solo 33mila siriani, cioè il 2,2% dei rifugiati nel Paese dei cedri.
Gli alleati del regime di Damasco – quelli che a oggi sono i vincitori, Iran e Russia in primo luogo – non hanno le risorse da investire per la ricostruzione del Paese. Se la Russia ha ottenuto dal suo intervento militare ciò che maggiormente le stava a cuore, cioè il territorio sul quale è stata costruita la nuova base aerea, il porto di Tartus e la concessione degli ingenti depositi di fosfati, ora bisogna tenere in vita la Siria – e questo passa dal reperimento di risorse per la ricostruzione.
Bashar al-Assad, che ha ereditato il Paese dal padre Hafez, è stato espulso dalla Lega araba, ma, soprattutto per effetto dei nuovi rapporti con l’Egitto e gli Emirati arabi uniti, negoziati sono in corso per la riammissione nella casa comune “araba”. Che in quella casa metodi “bruschi” siano accettati è noto e dimostrato dalle performance degli altri governanti, in carica e passati. Un ostacolo sulla via della riammissione potrebbe venire dalle recenti deliberazioni della Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Dopo il massacro perpetrato nel 2013, la Siria accettò la proposta congiunta di Stati Uniti e Russia di riconoscere e distruggere il proprio arsenale chimico ed entrò a far parte dell’Organizzazione. Ora, però, ha perso il diritto di voto in quel consesso, dopo la relazione del 7 maggio scorso al Consiglio di sicurezza dell’Onu di Niruzi Nagamitsu, alta rappresentante Onu per gli affari relativi al disarmo. La sua relazione ha indicato elementi comprovanti le responsabilità dell’esercito siriano nell’attacco chimico che ha avuto luogo nella località di Saraqib, e ha denunciato la scoperta di sostanze chimiche nello stabilimento di Barzah. In precedenza gli ispettori dell’Onu erano giunti alla conclusione che anche tre attacchi chimici compiuti a Ltamenah erano stati opera del regime. Di qui la perdita di diritto di voto e uffici presso l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, su proposta della Francia, con il placet dei due terzi degli Stati membri, e il no di Russia, Cina e Iran.
A preoccupare l’Onu, sarebbe soprattutto la questione del gas rinvenuto a Barzah, che non figura tra quelli di cui la Siria ammise il possesso nel 2013, e che quindi potrebbe costituire una nuova produzione, non soltanto una scorta di magazzino non denunciata. Su questo punto è atteso un nuovo pronunciamento dei tecnici dell’Onu. Per il think tank indipendente con base a Berlino, Global Public Policy Institute, gli attacchi chimici dei quali l’Onu dovrebbe chiedere conto sarebbero 335.
Ma anche l’uso delle armi chimiche potrebbe non impedire un riavvicinamento tra Damasco e Lega araba. Anche in questo caso c’è un precedente illustre, l’uso di armi chimiche da parte dell’Iraq di Saddam Hussein contro i curdi ad Halabja nel 1988. La questione è al centro del complesso negoziato tra Iran e Arabia Saudita, in cui si cercherebbero reciproche concessioni in Yemen e Siria.
Ma gli arabi procederebbero alla ricostruzione della Siria da soli? In molti Paesi europei sono cominciati i processi per crimini contro l’umanità a carico delle autorità di Damasco. Il più famoso è quello tedesco, conclusosi a Coblenza, con una prima condanna per favoreggiamento di crimini contro l’umanità a carico di un siriano riconosciuto per strada e denunciato come agente incaricato di trasportare in sala di tortura alcuni prigionieri. Con l’ausilio di diverse Ong, altre vittime si sono rivolte alle competenti autorità giudiziarie in Svezia e in Francia, dove in base al principio giuridico che i crimini contro l’umanità sono perseguibili in tutto il mondo sta prevalendo l’orientamento a procedere come si è fatto in Germania.
La questione ha trovato rilievo nella lettera aperta firmata da diciotto ministri degli esteri europei, anche qui con Germania, Francia e Italia in prima fila, il 31 marzo scorso, nella quale si chiede che la Corte penale internazionale venga autorizzata a perseguire i crimini contro l’umanità perpetrati in Siria: “È fondamentale che le violazioni, documentate in maniera così approfondita, finiscano immediatamente. Siamo anche determinati a far rispettare tutte le norme internazionali per proteggere i diritti di tutti i siriani, come dimostrato dalla recente azione avviata dai Paesi Bassi per chiedere alla Siria di rendere conto delle violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. I tribunali nazionali, alcuni dei quali hanno già avviato procedimenti giudiziari, svolgono un ruolo importante in questo senso. In molti dei nostri Paesi sono già stati avviati procedimenti giudiziari ed emesse sentenze definitive contro i colpevoli. […] Oggi siamo chiamati a dare soluzioni alla tragedia dei detenuti e degli oltre centomila scomparsi. […] Combattere l’impunità non è solo una questione di principio, è anche un imperativo morale e politico, una questione di sicurezza per la comunità internazionale […]. Infine, la lotta contro l’impunità è un prerequisito per la ricostruzione di una pace duratura in Siria”.
La questione di fondo è dunque che tipo di Mediterraneo si vuole costruire. Se questo è il punto, allora è importante anche capire cosa sia successo in Siria. Un’indicazione la dà uno dei più autorevoli studiosi del mondo arabo, Gilles Kepel, nel suo recente volume Uscire dal caos con riferimento alla parziale amnistia decisa dal regime, a fine 2011, ed estesa “a molti detenuti appartenenti al movimento islamista: Fratelli musulmani, salafiti, e jihadisti, compresi alcuni di quelli che erano stati consegnati dalle autorità americane nel quadro della politica di rendition. Tenuto conto delle onnipresenti manipolazioni imputabili ai servizi segreti siriani, è ipotesi diffusa che gli uomini che agivano nell’ombra avessero contemplato la rapida ascesa al potere dei più radicali a capo della rivolta e la sua facile demonizzazione da parte del regime”.
Tra questi islamisti radicali, rilasciati da Assad per aiutare “il miglior nemico”, sono certamente giunti anche quelli foraggiati dai suoi nemici del Golfo, per abbattere lui ma anche per dirottare la rivolta: a nessun regime piace un movimento democratico alle porte di casa. Così diventano emblematiche due storie: quella del gesuita italiano Paolo Dall’Oglio, espulso da Assad e sequestrato dall’Isis, e quella dei quattro attivisti per i diritti umani guidati da Razan Zaituneh, fuggiti da Damasco perché ricercati dal regime e sequestrati da Jaysh al-Islam, milizia finanziata dall’Arabia Saudita. Di nessuno di loro si è più saputo nulla.