“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”: così recita l’articolo 37 della nostra Costituzione. E l’uguaglianza di remunerazione per un lavoro di egual valore è un principio che era già contenuto nella Costituzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) del 1919, organizzazione della Società delle nazioni, nata con l’obiettivo di perseguire la giustizia sociale e il riconoscimento universale dei diritti umani nel lavoro, attraverso la promozione di un lavoro dignitoso – il cosiddetto decent work – in condizioni paritarie in termini di uguaglianza, libertà e sicurezza per tutte le donne e tutti gli uomini.
Nel secondo dopoguerra questo principio fu rafforzato nella Convenzione OIL n. 100, che venne ratificata dall’Italia nel 1956 dando il via a un processo di riforme, culminato con la legge 903/77 con cui il parlamento ratificò la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Eppure, dati Istat alla mano, il cosiddetto gender pay gap – cioè il differenziale retributivo di genere che misura le sperequazioni tra donne e uomini a parità di mansioni – continua a esistere nel nostro Paese.
Nel 2018 (prima della pandemia, quindi) il differenziale retributivo era in media del 6,2%. Ma la forbice si allargava al 17,7% nel comparto privato, mentre nel comparto pubblico si assottigliava al 2%. A risentirne di più le donne che occupano i vertici: il differenziale retributivo di genere è più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%). Con la pandemia le donne sono state ancor più penalizzate. Secondo una ricerca, nel terzo trimestre del 2020, la busta paga di lavoratrici e donne delle professioni italiane è stata più leggera dell’8,7% rispetto a quella dei colleghi uomini, mostrando un gap in crescita rispetto al 7,9% del secondo trimestre del 2019.
L’importanza del tema non poteva sfuggire a Mario Draghi che, nel discorso di presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza in parlamento, dichiara infatti l’intenzione di “eliminare gli ostacoli che limitano la partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Il governo intende lanciare nel primo semestre del 2021 la strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, con il Pnrr che ne articola le priorità. Oltre quattro miliardi sono destinati agli asili nido, quasi un miliardo all’estensione del tempo pieno nelle scuole primarie, 400 milioni per favorire l’imprenditorialità femminile”. Buone intenzioni, sicuramente, ma reggono alla prova?
Guardando ai numeri, 400 milioni di euro – sui 6,66 miliardi dedicati alle politiche del lavoro – destinati alla strategia nazionale per la parità di genere, sono poca cosa; se poi li mettiamo insieme con i dieci milioni da investire nell’introduzione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere che “mira ad affiancare le imprese nella riduzione dei divari nella crescita professionale delle donne e alla trasparenza salariale”, si capisce che le intenzioni non vanno molto oltre le parole: non sono stati individuati progetti precisi, incentivi, misure di ampio respiro. E il problema che si presenta non è solo di natura economica, bensì anche culturale. Il concetto di base sembra essere quello di una veloce uscita dall’emergenza riconfermando il ruolo di cura relegato alla donna, che continua a essere associata ai lavori di assistenza, insegnamento, educativi e via discorrendo: settori in cui si sostiene di voler investire per creare maggiore occupazione femminile.
L’idea che la conciliazione tra vita familiare e professionale sia appannaggio della donna pone l’Italia in una condizione di arretratezza nei confronti delle politiche sociali di molti paesi europei, che hanno invece equiparato il ruolo maschile e quello femminile all’interno della famiglia. Conciliare vita e lavoro non può essere una necessità solo delle donne. Rafforzare le misure di assistenza familiare in un ambito che concerne solo il genere femminile equivale a non intervenire sulla controparte maschile. Cosa c’è nel Pnrr che incentivi gli uomini a condividere il carico di lavoro familiare? Anche le buone intenzioni per il raggiungimento della parità salariale sembrano parole destinate a restare sulla carta, senza una vera strategia, senza risorse. Questa continua a essere l’Italia, malgrado le lotte che le donne hanno portato avanti da decenni per il raggiungimento di una vera parità. Del resto è il Paese in cui c’è un senatore della Lega, Simone Pillon, che, commentando un’iniziativa dell’università di Bari intesa a ridurre le tasse di alcuni corsi per incentivare l’iscrizione delle studentesse, afferma: “Le femmine? Hanno maggiore propensione per le materie legate all’accudimento”.