Anzitutto, per quanto sia antipatico cominciare con un “l’avevamo detto”, è proprio il caso di sottolineare che non ci eravamo sbagliati: era fallimentare la strategia impostata dagli Stati Uniti di Bush figlio, dopo il disastroso attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, nel contrasto al “terrorismo internazionale”. Avevano ragione i vasti movimenti pacifisti che all’epoca, in Occidente, si erano spesi per tentare di impedire quella “guerra infinita”, dichiarata dai neoconservatori americani (molto influenti nell’amministrazione Bush, con la loro robusta ideologia in parte derivata dalle posizioni del filosofo Leo Strauss) all’Afghanistan prima e all’Iraq poi, secondo la prospettiva – folle prima ancora che bellicisticamente criminale – di un ridisegno complessivo dell’area mediorientale. Il jihadismo islamista ne trasse un immediato giovamento, e, se negli anni successivi, da un piccolo insieme di gruppi votati al martirio si tramutò in una movenza capace di reclutare attentatori ovunque nel mondo (e soprattutto in Francia), ciò si deve anche alla profonda ingiustizia delle guerre condotte in quei paesi – soprattutto quella in Iraq, giustificata mediante il trucco delle carte false presentate all’Onu dal governo statunitense, con il compiacente avallo della Gran Bretagna di Blair.
Un libro uscito da poco in Francia, intitolato appunto La guerre de vingt ans (ne sono autori gli studiosi di storia e politica delle relazioni internazionali, Marc Hecker ed Élie Tenenbaum), traccia un quadro impietoso dell’insuccesso occidentale. E non dimentichiamo che queste guerre insensate sono state condotte da coalizioni internazionali, in cui, nonostante ci sia un articolo della Costituzione che avrebbe dovuto impedirlo, è stata sempre presente l’Italia.
Si comincia con l’invasione dell’Afghanistan dominata dai talebani, rei di aver dato ospitalità al temibile Bin Laden (che, come tutti sanno, prima di diventare l’acerrimo nemico degli Stati Uniti, era stato sostenuto da questi all’epoca della resistenza dei mujaheddin contro l’invasione sovietica), e con la strana alleanza della coalizione messa su dagli americani con le tribù del nord del paese contro i pashtun, in maggioranza favorevoli ai talebani e presenti soprattutto a sud-est, al confine con il Pakistan, che sarà di fatto coinvolto nel conflitto. Strana alleanza, perché, come nelle vecchie contese coloniali, consisteva in una presa di posizione all’interno di una guerra civile locale a base etnica. A quel tempo parve una conferma del mio discorso circa la “tribù occidentale”: un Occidente – ridotto ai minimi termini politici da una gestione poco lungimirante della crisi – si trasformava in una etnia tra le altre, oltre che in una forza armata di occupazione, per dare la caccia a un barbuto personaggio, sotto molti aspetti arcaicamente folcloristico anche se feroce, che di lì a poco ebbe modo di rifugiarsi in Pakistan. Intanto, con i talebani non si poteva trattare: bisognava distruggerli.
Vent’anni dopo, il nulla di fatto della lunga spedizione occidentale in una terra messa a ferro e fuoco traspare dalla circostanza che con i talebani, nient’affatto distrutti, si è venuti a patti – e ancora si tratta, mentre essi non cessano di compiere devastanti attentati dinamitardi. Gli americani hanno messo a punto una road map di disimpegno militare che prevede, sia pure con qualche rinvio sulla data, il completo ritiro da un paese abbandonato a se stesso e alle proprie tradizionali diatribe. Non sarebbe stato più saggio, allora, trattare fin dall’inizio, evitando di imbarcarsi in una specie di nuovo Vietnam?
Nel marzo 2003, toccava all’Iraq di essere invaso, senza neppure la scusa di aver dato ospitalità a qualche terribile terrorista. Saddam infine veniva impiccato, il suo esercito sciolto, e si dava tutta la preferenza agli sciiti – maggioranza nel paese, che fino a quel momento aveva dovuto sopportare il giogo sunnita, rivestito di una laicità ormai fuori moda nel mondo arabo. Gli sciiti, una volta pervenuti al potere, non si lasciavano sfuggire l’occasione di una rivalsa. I sunniti, molti dei quali ex militari, andranno così a ingrossare le file dell’opposizione armata, fino all’adesione, per molti di loro, all’organizzazione denominata Stato islamico, che troverà negli anni successivi il proprio quartier generale oltreconfine, a Raqqa, in territorio siriano.
C’è però una svolta del tutto imprevista in questa orribile vicenda di attentati, ritorsioni, invasioni, stragi di civili, torture, fanatismi contrapposti a base etnica o confessionale, e così via. Tra la fine del 2010 e i primi mesi del 2011 – a partire dalla Tunisia, dopo che un giovane venditore ambulante vessato dalla polizia di regime si era dato fuoco per protesta –, anche grazie a una sorta di tam-tam reso possibile dai nuovi media, prendono vita e si allargano le rivolte popolari della cosiddetta “primavera araba”. Dalla Libia all’Egitto (su cui siamo già intervenuti su questo sito), dallo Yemen alla Siria. Ma è una “rivoluzione introvabile”, l’unica forse possibile nel ventunesimo secolo (dopo che già l’Iran, nel lontano 1979, aveva mostrato come le rivoluzioni oggi siano incredibilmente impastate di spirito religioso, quando non teocratico), e tuttavia andata molto rapidamente a male.
Il luogo dove ciò appare evidente al massimo grado e nel modo più puro – anche perché, a differenza che in Libia, non ci fu subito un intervento militare occidentale, almeno non in maniera diretta – è la Siria. Qui un composito movimento popolare, non privo di una componente democratica, si trovò dinanzi il muro di una spietata repressione. Mentre (come aveva fatto in Egitto con Mubarak) il presidente statunitense Obama andava ripetendo che Assad avrebbe dovuto rinunciare al potere, questi si scagliava contro la sua stessa popolazione, arrivando fino all’uso delle armi chimiche. L’Esercito siriano libero, frutto di una secessione nelle forze armate di Assad, sarà sì appoggiato e addestrato dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia, ma non riuscirà a niente, mentre il variegato arcipelago dei gruppi islamisti radicali prenderà piede sempre più.
A questo punto, pur senza entrare nei particolari, è evidente come la situazione, in nessuno dei teatri di guerra, volga a favore dell’Occidente e dei suoi interessi di “pacificazione” dell’area mediorientale. Se a ciò si aggiunge tutto lo sforzo che sarà dispiegato – peraltro con il decisivo ausilio delle milizie curde sul terreno – per battere in breccia l’organizzazione dello Stato islamico (in particolare con una battaglia di mesi intorno alla città di Raqqa nel 2017), che in parte è proprio una conseguenza dell’invasione dell’Iraq, si comprenderà perché si possa parlare di un nulla di fatto su tutta la linea. La strategia neoconservatrice di ridisegno della regione riceverà una dura replica da parte della storia; e lo stesso Obama (per tacere poi di Trump) avrà delle difficoltà a tirarsene fuori, o a non farsene impantanare ancor più.
Del resto la strategia muterà: sarà quella dell’attacco mirato, soprattutto con l’uso dei droni: una tecnologia sempre più perfezionata di uccisione da lontano dei combattenti jihadisti, che pone certo non pochi problemi etici, ma almeno sarà più efficace. È l’opzione preferita da Obama, basata sui servizi di intelligence e il minimo dispiegamento di forze – la stessa che permetterà di fare fuori il nemico numero uno Bin Laden. In Pakistan, però, cioè in un paese “amico”, non nell’Afghanistan occupato.