Una giornalista, stimata collega e amica femminista, rivendicava tempo fa, giustamente, il diritto a sostenere donne mediocri per le cariche pubbliche elettive, come segno di parità in un mondo nel quale gli uomini mediocri non mancano; anzi, spesso sono la maggioranza, e senza destare scandalo. Curiosamente, la stessa persona non si accodò neppure per un istante alle celebrazioni per l’elezione di Virginia Raggi, storica prima sindaca della capitale, la cui esperienza amministrativa, guardata a posteriori, potrebbe rappresentare invece esattamente la dimostrazione della validità di quella teoria sulla parità di genere. Per ora invece Raggi passa, se non alla storia, nella cronaca quotidiana della politica nazionale come l’ostacolo principale su cui si infrange il progetto di una alleanza fra il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico alle prossime elezioni amministrative. Roma per ora ha da scegliere fra la prima cittadina uscente, un grigio ex ministro del Pd come Roberto Gualtieri, il divo confindustriale dei talk show, Carlo Calenda, e un grande punto interrogativo per quanto riguarda la coalizione di destra. Difficile immaginare entusiasmo e code alle urne; ancora più arduo immaginare una ricomposizione al secondo turno per mobilitare gli elettori contro le destre (pericolo “fascismo”? con gli alleati di governo Lega e Forza Italia?).
È relativamente poco interessante qui seguire le contorsioni quotidiane dei due alleati per caso, che hanno in comune soprattutto due lustri di astio reciproco, e di una comunicazione politica basata sulla mostrificazione dell’altro (che tornerà di moda se, come pare più che possibile, Pd e 5 Stelle correranno separati, oltre che a Roma, anche a Milano e Torino). La domanda che forse sarebbe più utile porsi è se esista un modello, una visione di città, un’idea di società con qualcosa in comune fra le due forze principali del futuribile “nuovo centrosinistra”.
Anche lasciando perdere la controversa questione delle condizioni in cui ha trovato le municipalizzate, o l’affanno della giunta capitolina nella gestione dei rifiuti e dei trasporti, sarebbe impossibile parlare di Roma senza giudicare l’immobilismo di Raggi sulla progettazione delle reti infrastrutturali (in piena continuità con i predecessori Alemanno e Marino, quest’ultimo però “segato” prematuramente, come tutti ricordano, proprio dal Pd), oppure il suo mutismo di fronte alla crescente disperazione sociale dei senza casa, “curata” a colpi di sgomberi e proclami senza risultati apprezzabili. Così come non avrebbe senso dimenticare che il Piano regolatore delle diciotto “centralità urbane” di Walter Veltroni fu autorevolmente stroncato, a suo tempo, anche da Walter Tocci, e ha prodotto più che altro una pioggia di centri commerciali il cui valore aggiunto per la città resta fortemente in dubbio.
Il caso di Roma resta tuttavia fortemente indicativo della debolezza politica, per non dire del vuoto di idee, che accompagna l’accidentato percorso di avvicinamento fra 5 Stelle e Pd. Il primo arriva alla riconferma della candidatura di Raggi sostanzialmente per decisione individuale della stessa sindaca. Il secondo candida Gualtieri, paradossalmente, come effetto della stessa volontà: se non ci fosse stata Raggi di mezzo, il segretario del Pd Enrico Letta era pronto a lanciare il suo predecessore Nicola Zingaretti. Il Pd sembra ancora prigioniero dell’antico schema ulivista della quercia e dei cespugli, inapplicabile però a una forza che, nonostante la sua crisi, resta in doppia cifra percentuale anche nei sondaggi più severi. Quindi riesce a fare politica laddove può legittimamente imporre i suoi candidati; va in affanno dove serve un compromesso o almeno un negoziato. Le due forze, comunque, esprimono per ora – ma magari ci sorprenderanno in campagna elettorale – la stessa debolissima idea: per governare Roma basta un buon amministratore.
È vero, l’ex leader democratico sta guidando in qualche modo la Regione Lazio fuori dai marosi della pandemia, ma nella vicenda politica nazionale è stato sconfitto due volte da Renzi (che prima lo ha costretto a dire sì al Conte 2, poi lo ha fatto saltare, proprio quando Zingaretti puntava a farne il trampolino del nuovo centrosinistra), e difficilmente lo si potrebbe considerare oggi portatore di una “visione” per il Campidoglio. La sindaca, dal canto suo, è uscita indenne dai suoi guai giudiziari; e si sa che per la domanda di cambiamento della quale il Movimento 5 Stelle è espressione già il fatto di “non rubare” è un segno sufficiente di capacità amministrativa.
Per risollevare questo panorama di uniforme mediocrità, servirebbe uno scatto di reni, magari sollecitato dal livello nazionale. Per ora, Conte appare impantanato nelle vicende burocratico- giudiziarie e non ha ancora chiarito se intende fare del Movimento un partito ecologista-atlantista, alla tedesca, o una sorta di Margherita 2.0 “che dialoga con la sinistra”, come forse preferirebbe Luigi Di Maio. Mentre Letta non ha ancora dato segni di aver compreso che la nuova Casa Bianca ha cambiato decisamente rotta, almeno per quanto riguarda la politica economica, e che il minimo sindacale per il suo partito sarebbe provare a mettere le vele a vento, anche se questo gli dovesse costare qualche attrito con il governo Draghi e la composita maggioranza che lo sostiene. Visione, appunto, contro mediocrità. Per ora vince la seconda.