Ogni anno, nella giornata carica di simboli del 9 maggio, con gli interventi e le celebrazioni, si susseguono le richieste di verità. Fare luce sugli anni di piombo, dipanare le ombre, chiarire le responsabilità e così via. È vero, non sappiamo molte cose del nostro passato recente, ma non è vero che non sappiamo niente: questo aspetto che andrebbe consolidato, rafforzato nel discorso pubblico, è invece sempre tralasciato se non taciuto.
Sappiamo che le stragi di stampo neofascista furono realizzate da gruppi allevati e protetti dai nostri servizi segreti, che Ordine nuovo e Avanguardia nazionale sono state due centrali del terrore accolte dal mondo militare, e che hanno dato vita ai loro eredi spontaneisti, quelli che hanno agito a Bologna; sappiamo che le forze armate sono state tentate da interventi autoritari; che il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, spartiacque della storia della Repubblica, sono stati possibili grazie alla collaborazione o al non intervento – il che è la stessa cosa – degli apparati di sicurezza e alle scelte della Democrazia cristiana. La falsità del racconto brigatista, concentrato nel noto “Memoriale Morucci”, è accertata dalla commissione parlamentare Moro2. Le Brigate rosse hanno voluto nascondere la verità e non beviamo la storia che lo avrebbero fatto per tutelare persone sfuggite alle inchieste: avrebbero potuto raccontare i fatti senza fare nomi. L’elenco di ciò che sappiamo non è così breve. Ora si aggiunge anche la grande inchiesta bolognese sulla P2 come mandante della strage alla stazione, che si pone come un centro di novità assolute, potenzialmente in grado di scrivere un bel pezzo di storia – negli interventi tenuti il 9 maggio, lo ha ricordato Paolo Bolognesi, indomito presidente dell’Associazione delle vittime di Bologna. Ma nel discorso pubblico c’è molta genericità.
Per esempio, c’è sempre qualcuno che di tanto in tanto rispolvera la vecchia e suggestiva idea di istituire una “commissione per la verità” sul modello sudafricano: perdono in cambio di informazioni e chiarimenti. Quest’anno lo ha fatto in una intervista a Repubblica Walter Veltroni. Ne parlò in passato il magistrato milanese Guido Salvini, protagonista di processi decisivi sul neofascismo e la strage di piazza Fontana: spiegò la necessità di istituire una “commissione per la verità e la riconciliazione” traendo ispirazione da quella che ha operato in Sudafrica, in condizioni molto diverse, dopo la fine dell’apartheid. Non una commissione composta da parlamentari ma da giuristi, storici e personalità indipendenti, magari promossa dal ministro della Cultura. È una proposta che formulò per primo il presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino negli anni Novanta, quando poteva davvero funzionare. Ora è fuori tempo massimo, senza nessuna tensione etica nel Paese. E poi: per quale caspita di motivo dovrebbero aderire persone restituite in gran parte alla vita pubblica?
Semmai dovremmo chiederci perché non è stata attuata in passato – e sappiamo perché. L’establishment del potere non ha voluto cercare una verità scabrosa, perché coinvolti erano anche loro. Dopo la strage di piazza Fontana avremmo potuto assistere a una grande scena: i maggiori responsabili politici e istituzionali del Paese avrebbero potuto dire pubblicamente che un pezzo dello Stato aveva tramato con i neofascisti, ma che da allora in poi tutto sarebbe cambiato. Invece non andò così – anche questo lo sappiamo. Giulio Andreotti e il suo amico magistrato Vitalone riuscirono a mettere in piedi un processo farsa sul golpe Borghese, per arrivare a dire che era stato tutto uno scherzo, anziché fare i nomi e condannare uno a uno i golpisti, mostrando a tutti quelle facce da maschi di regime. Le organizzazioni militari parallele, scoperte dal giudice Giovanni Tamburino nel 1974, sono state tutelate. E poi così via. Il blocco reazionario ha continuato a tramare per affondare la Costituzione e le garanzie democratiche: Aldo Moro ha tentato di contenere la deriva fascista della Dc, sapendo che se quei pezzi si fossero sentiti liberi sarebbero stati assai pericolosi. Mi ha ricordato ieri il mio amico Francesco Biscione, tra gli storici più acuti, che Pasolini lo aveva capito: lui parlava di Moro come “il meno implicato nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 in poi per conservare il potere”, mentre Sciascia no, per lui erano tutti uguali, pur avendo profondo rispetto dell’uomo prigioniero (nel suo insuperato L’Affaire Moro). Di qui tra l’altro il dissidio tra i due intellettuali.
I buchi neri della storia italiana non sono parentesi, frutto di falle del sistema, ma un segmento criminale della storia stessa: cioè hanno potuto esistere in quanto parte del sistema statuale. Questo grande tema – non ancora affrontato adeguatamente in sede storica – è tutto ciò su cui dovremmo concentrarci, evitando generiche formule, come quella che invoca “la verità sugli anni di piombo”. Il 9 maggio l’ha utilizzata anche il presidente Sergio Mattarella in una intervista nella quale ha fatto affermazioni condivisibili: ha ammesso che il caso Moro non è risolto, poi ha negato che il terrorismo sia stato frutto del Sessantotto, stagione di intenso protagonismo sociale e impulso ai cambiamenti (testualmente, “le stagioni delle lotte sindacali, come quelle delle manifestazioni studentesche, sviluppatesi alla fine degli anni ’60 del Novecento, hanno rappresentato forti stimoli allo sviluppo di modelli di vita ispirati a maggiore giustizia e coesione sociale”).
Semmai aveva ragione Rossana Rossanda a rintracciarne le primissime radici – di certo Curcio e Franceschini non sono Moretti e Senzani – nell’armamentario ideologico della Terza internazionale, come disse in quel contestato articolo nel quale ricorreva all’immagine dell’album di famiglia della sinistra, con cui però si affidò alla narrazione falsa di Mario Moretti (raccogliendo la sua testimonianza nel libro con Carla Mosca). Di certo molti cattolici finirono nelle Br, e molti rivoluzionari furono poi folgorati da Comunione e Liberazione. Altri furono attratti dal potere arrogante del craxismo. Insomma si tratta di storie diverse che vanno analizzate nelle loro collusioni con il potere. Ma ciò che davvero manca, al di là di una certa retorica, è la verità sul potere in Italia. È per questo che dobbiamo batterci, perché tutto questo ci parla del nostro presente.