Bel rompicapo, la vertenza legale fra i 5 Stelle e Casaleggio. L’occasione è venuta da un’espulsione controversa, ma il contrasto è più complesso e investe la sostanza della rappresentanza politica.
La piattaforma digitale Rousseau appartiene a Casaleggio, che al momento non permette ad altri di usarla e non vuole neanche condividere nomi e indirizzi dei partecipanti, anche perché non viene saldato un debito accumulato nel tempo (neppure enorme; i debiti non pagati, nella storia politica italiana, e ultimamente quello della Lega, ci hanno abituati a ben altro). Casaleggio, però, non rappresenta il movimento, che a sua volta non ha – a questo punto lo dice l’autorità giudiziaria – un suo rappresentante optimo iure. Di Maio non lo è più, Crimi non è in regola e Conte non lo è ancora. Quanto al curatore nominato dal tribunale, non ha investitura politica. Per nominare il rappresentante bisogna servirsi per forza della piattaforma digitale. Già, ma appunto: chi la controlla non permette di usarla, farne un’altra identica non si può, ricominciare tutto da capo richiederebbe nuove adesioni e forse nuovi simboli; comunque, di fatto ci vorrebbero contatti, nomi e indirizzi che solo il possessore della piattaforma possiede.
Sembra di tornare alla scissione del Partito comunista fra Pds e Rifondazione, che però non giunse alla paralisi. Fu più ringhiosa la diatriba sulle ossa della Democrazia cristiana, che franò in uno strascico giudiziario con livori a denti stretti (indimenticabili i distinguo di Rocco Buttiglione sul perdono cristiano, purché, San Tommaso, peraltro).
I tempi delle rovine sono sempre attraversati da liti su ciò che resta. Ma in questo caso, per colmo di assurdo – dev’essere l’effetto compresso di un mondo in accelerazione –, alle elezioni i 5 Stelle hanno avuto un seguito imponente, con conseguente gruppo parlamentare, un po’ alla volta insidiato da defezioni e ripensamenti. Il senso di già visto è forte, ma più forte dev’essere la fermezza contro le letture facili. La rappresentanza popolare non è uno scherzo e ogni suo rovescio è un danno per tutti.
Quando sono i tribunali a sbrogliare la matassa di una forza politica, e in genere di un’istituzione non imprenditoriale, significa che qualcosa di non risarcibile si è incrinato. In questi casi, in seguito, la vertenza spicciola tende a trovare un equilibrio ma quella sottostante non si ricuce, piuttosto evolve in esiti non necessariamente migliori. A uscirne in pezzi sono alcuni miti fondativi del movimento 5 Stelle, punti di riferimento di larga presa e di scarso spessore che hanno fatto furore e che adesso mostrano la corda.
Il valore della Rete, della comunicazione digitale, più in generale della tecnologia o meglio del suo lato dematerializzato, quasi magico (la politica con un click, l’appartenenza liquida, persino la creazione a portata di mano, la stampante tridimensionale).
Tutti su Internet! Ma le chiavi di accesso di un sito – puoi anche chiamarlo con il nome di un philosophe – non sono di tutti, e chi le ha se le tiene. Se il punto di riferimento politico è una piattaforma, magari che fa pubblicità o profilazione vendibile, chi partecipa è a sua volta un prodotto, e i prodotti non possono scegliersi lo scaffale. Rifiuto dell’autorità, delle forme convenzionali, delle strutture rigide (la non associazione, il non statuto, no a questo e no a quello): in proposito, vengono in mente le osservazioni, preoccupanti visti i tempi, di Wilhelm Reich: “La mentalità fascista è la mentalità dell’‘uomo della strada’ mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi a un’autorità e allo stesso tempo ribelle”. E di Lelio Basso: “I ceti medi, che ne furono gli iniziatori, apportarono al fascismo, oltre che la sua base di massa, tutta l’irrequietezza, la vuota retorica e fumisteria ideologica di cui erano tradizionali portatori”. Visto che i ceti medi si impoveriscono, sbandano in cerca di taumaturghi e sono facili cantori di borborigmi, la diffidenza sulla regolamentazione della rappresentanza e sulle sue mediazioni può essere un termometro impietoso.
Uno vale uno. Gioco di parole che pure ha senso, contro un sistema elettorale perverso. Slitta sul gioco da caffè, se si pensa alla coerenza sulla questione dei limiti al mandato (che aritmetica è, quella di chi vorrebbe il primo mandato come numero zero?). E poi, se “uno vale uno” funziona tramite una piattaforma controllata da un privato, quell’uno da soggetto diventa un oggetto, una cosa che resta sotto l’orizzonte dei paradigmi di parità immaginaria. Una cosa senza sogno. La reificazione denunciata da Marx si può fare – ultima beffa del capitale – anche dematerializzata e credendo di cambiare tutto. Reificazione senza la cosa. La ferriera digitale non sa di sudore e ti disumanizza con un like. La rivoluzione passiva in un click.
C’erano già dubbi sulla selezione, usando la piattaforma per l’emersione dei candidati. Ma ora l’arnese sfugge di mano e intanto gli eletti restano in parlamento. Se i maghi sono apprendisti, allora il cittadino scontento, quell’uno, è stato illuso di essere tutto e non è niente. La sua somiglianza con l’Uomo qualunque c’era già, col contrappeso di istanze solidaristiche e del bisogno di pulizia nel Palazzo. Adesso lo scollamento anche dalla piattaforma, ridotta a utensile sfilabile e conteso, appiattisce tutto: se il meccanismo di selezione è tecnico, impalpabile ma in fondo materiale come una sezione di partito (anche qui vattene, pagami, no è mio), allora è conservatore, o al limite è una trafila politicamente neutra. Altro che modello digitale per un mondo giusto, verde e funzionale. C’è un arnese, ma è un terreno di contesa, uno stiglio aziendale; lo conferma l’intervento di personaggi prosaici e poco inclini agli entusiasmi: giudici, avvocati, curatori, carte bollate.
La Costituzione garantisce il diritto di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico alla vita politica. Il partito non è la sola forma possibile di partecipazione, e considerando i brutti ricordi della vigilia del 1989 e del berlusconismo, l’arrivo dei barbari poteva sembrare salutare. Il punto è che sono stati combinati metodi aziendalistici e vantaggi partitici, benedetti da algoritmi e parole d’ordine. Il tutto su regole astruse e con uno strumento privato.
La vertenza in qualche maniera sarà superata, i 5 Stelle si riorganizzeranno. Ma la lezione di questa storia è gridata ai sordi: non esistono scorciatoie, la democrazia ha bisogno di regole e partecipazione, la rappresentanza vuole organizzazione, conflitto, impegno. Partito non è una parolaccia.