Nell’appello a favore degli italiani per cui è stata richiesta l’estradizione dalla Francia, apparso sul quotidiano “Libération” del 29 aprile, si legge: “Nell’Orestea di Eschilo, un omicida vaga nell’esilio braccato dalle divinità della vendetta (le erinni) che reclamano riparazione in nome della vittima. Ma Oreste dice questa cosa curiosa: ‘Non sono più un supplicante con mani impure: la mia macchia si è cancellata a contatto con gli uomini che mi hanno accolto nelle loro case o che ho incontrato per strada’”.
È un più profondo senso del diritto e della giustizia a spingere verso il superamento dello spirito di vendetta, caratteristico delle erinni o della legge del taglione. Ma anche i meccanismi legali possono essere ingiusti, specie a distanza di tanti anni dai reati, se usati in modo persecutorio. Spiace che la ministra della Giustizia Marta Cartabia si sia infilata in un ginepraio legale che difficilmente vedrà la giustizia francese cedere ai capricci (perché di questo si tratta) della politica italiana e di un governo che ha al suo interno la Lega. A dirla tutta, come mai le richieste di estradizione che hanno portato alla “retata” francese non sono state inoltrate al tempo del governo gialloverde? La risposta è semplice: la Francia e il suo presidente centrista, che deve la sua elezione al rifiuto dell’estrema destra lepenista, mai avrebbero accolto una richiesta proveniente da un governo che vedeva Salvini al ministero dell’Interno e un altro ministro, Luigi Di Maio, che flirtava con i “gilet gialli”. Dunque doveva arrivare l’immacolatissima Cartabia a farsi carico del tentativo, ultimo in ordine di tempo, di chiudere i conti con i cosiddetti anni di piombo italiani.
Ma che cosa siano stati veramente quegli anni, e perché alcuni loro protagonisti siano finiti nell’esilio francese, è dominio ormai degli storici. Dal punto di vista del diritto, tutto avrebbe dovuto concludersi, a parere di molti, con un provvedimento di indulto: ma questa strada per un insieme di ragioni non la si è voluta percorrere, e oggi non sarebbe realisticamente percorribile. Neppure rifare i processi – come in qualche caso sarebbe stato opportuno, in quanto la legislazione sui pentiti, con i sostanziosi sconti di pena per chi collaborava, ha procurato non poche distorsioni –, a distanza di tanti anni, avrebbe più molto senso.
Si prenda il caso di Giorgio Pietrostefani, tra tutti il più spinoso. L’ex dirigente di Lotta continua, lasciato in tranquillità a Parigi per qualche decennio, deve scontare un residuo di pena di quattordici anni. Non poca cosa per un uomo ormai quasi ottantenne. Di fatto, una volta rientrato in Italia, in capo a pochi mesi andrebbe agli arresti domiciliari. Come per Sofri e Bompressi, condannati per lo stesso reato (l’omicidio del commissario Calabresi), tutto si è sempre giocato sulle dichiarazioni del pentito Leonardo Marino, ritenuto credibile dai giudici. Non esistono altre fonti di prova. Per quanto si possa essere ragionevolmente persuasi del fatto che i dirigenti di Lotta continua fossero i mandanti dell’azione contro Calabresi, non sapremo mai se la mano di Bompressi (Marino sarebbe stato alla guida dell’auto) fu armata proprio da Sofri e Pietrostefani, e soltanto da loro, o magari anche da qualche altro leader di cui Marino ha preferito non fare il nome, oppure infine né da Sofri né da Pietrostefani, ma – sebbene ciò appaia alquanto improbabile – da un “gruppo di fuoco” formatosi in modo spontaneo. Lotta continua, nel 1972, aveva un’organizzazione ancora magmatica (la strutturazione in una sorta di piccolo partito leninista avverrà solo negli anni seguenti), e perciò tutto è plausibile sul piano dell’ipotesi storica; mentre, dal punto di vista giudiziario, non c’è il minimo straccio di prova se non appunto le dichiarazioni di Marino che, da parte sua, può avere benissimo, se non mentito, almeno “aggiustato” un po’ la verità.
Quando si dice che le estradizioni, una volta ratificate dalla giustizia francese, darebbero la possibilità di precisare le rispettive posizioni, si dice una cosa assolutamente non plausibile. Se davvero si volesse fare chiarezza sul caso Calabresi, si dovrebbe arrivare a confrontare le dichiarazioni di Pietrostefani (ammesso che voglia farne) e quelle di Marino: e sarebbe, in linea ipotetica, più probabile che ciò avvenisse qualora Pietrostefani fosse libero dalla condanna che pesa sul suo capo. Se, a distanza di quasi cinquant’anni dai fatti, ci fosse stata una remissione delle colpe, potremmo forse sperare di ottenere alcuni ulteriori chiarimenti su ciò che accadde in quegli anni.
A oggi sappiamo questo con certezza (e non è poco): un vasto movimento di massa – studentesco e operaio, iniziato alla fine degli anni Sessanta e proseguito nei Settanta – fu ricacciato indietro dalla strategia della tensione con bombe e stragi, che indussero taluni gruppi a imboccare, per reazione, la via della “lotta armata”. Tra questi non vi fu Lotta continua, che anzi, va ricordato, si oppose nel suo insieme alla strategia brigatista. Tuttavia è altamente probabile che questo gruppo abbia preso la decisione di uccidere il commissario Calabresi in un momento in cui sembrava da escludere (anche per le condizioni della giustizia italiana dell’epoca) la possibilità di inchiodare il commissario alle proprie responsabilità nella morte dell’anarchico Pinelli, caduto da una finestra della questura durante le prime indagini – esse stesse parte della strategia della tensione in quanto palesemente depistanti – intorno alla strage di piazza Fontana a Milano.
Perché si può scrivere a cuor leggero “altamente probabile”? Perché, per un gruppo che in quel momento si riteneva rivoluzionario, una cosa è la strategia terroristica vera e propria, cui si ricorre quando appaiono sbarrate tutte le altre vie di agibilità politica, un’altra la rottura della legalità su un punto specifico: quello dell’esecuzione mirata di un commissario ritenuto, a torto o a ragione, un aguzzino. In sostanza, da Pietrostefani, all’epoca responsabile del servizio d’ordine di Lotta continua, vorremmo sapere, anche soltanto in linea generale, questo: è vero o non è vero che – già prima della stagione brigatista – si riteneva di potere e dovere rompere la legalità in talune circostanze? Ma se una risposta mai ci si potesse aspettare da Pietrostefani, questa sarebbe possibile solo se fosse sollevato dal fardello del residuo di pena da scontare.