Perfino il compassato Senato della Repubblica si è commosso. Il giorno dopo l’aula ha commemorato Luana D’Orazio, “una giovane lavoratrice mancata tragicamente mentre lavorava” e la presidente di turno ha voluto rincarare perfino la dose: “Con questo minuto di silenzio vogliamo sottolineare l’impegno del parlamento oggi e sempre per la tutela della sicurezza e della dignità del lavoro”. Non vorremmo essere cattivi usando termini forti come “coccodrilli”, ma è certo che tra quei senatori che non hanno parlamentato per un minuto ci sono persone responsabili dei tanti tagli che sono stati fatti negli ultimi trent’anni alla sicurezza sul lavoro e al personale delle Asl, del ministero e dell’Inail preposti ai controlli. Nel silenzio della coscienza di chi ha votato negli anni provvedimenti di legge e manovre finanziarie, non possono non esserci le tante lavoratrici e i tanti lavoratori che un giorno sono usciti di casa e non sono più tornati.
Ma anche noi non vogliamo cavarcela con poco, con una battuta “populista” contro la politica e il Palazzo. Come sappiamo i fenomeni sono complessi, e ogni fatto di cronaca ha un suo sviluppo e una sua ragione, magari tragica. Non è colpa del Senato e della politica se si continua a morire come in epoche passate. Non è colpa solo (o sempre) del padrone che non mette in atto le misure di sicurezza. E non è colpa dell’errore umano su cui spesso viene scaricata la responsabilità maggiore, proprio come si faceva nell’Ottocento quando le morti operaie venivano attribuite alle sostanze alcoliche. Ma passare dalla “colpa” attribuita solo a qualcuno all’assenza di “responsabilità” per gli atti che si compiono il passo è gigantesco. Ed è proprio ciò che sta avvenendo. Le cose succedono, ci si commuove sui media e sui social, il giorno dopo tutto è dimenticato. E invece i fatti di cronaca, soprattutto come quelli di cui stiamo parlando, andrebbero analizzati meglio e soprattutto (oltre ai riscontri giudiziari) andrebbero inquadrati in un contesto. Andrebbero cercati i collegamenti, i nessi di causa ed effetto anche se oggi si banalizzano le teorie dell’indeterminismo e della relatività per dire che l’antico “principio di causalità” non è più applicabile. Andrebbero invece seguite le tracce delle notizie che si legano ad altre notizie, dei fatti che scaturiscono da un contesto, individuate le similitudini nei fenomeni per cercare di capirli fino in fondo e per far sì che le tragedie non si debbano più ripetere.
Lo ha detto Marco Revelli, scrivendo della morte di Luana D’Ambrosio e di Christian Martinelli, operaio di quarantanove anni che lascia due bambine: “Ora basta, pretendiamo zero morti sul lavoro, hanno proclamato i sindacati, scendendo in agitazione. Ed è il minimo per un paese civile. Ma come ottenerlo? Per ridurre la letalità del Covid puntiamo sul vaccino. Prima o poi se ne avrà ragione. Ma per sconfiggere la letalità, barbaramente alta, del lavoro non c’è vaccino. Occorrerà di più. Molto di più. A cominciare da un adeguato numero di ispettori del lavoro. E da una diffusa cultura della sicurezza che non ceda di fronte all’appello puro e semplice all’efficienza della prestazione”. Nelle stesse ore, intervenendo alla trasmissione televisiva “Uno mattina”, il segretario della Cgil, Maurizio Landini, chiedeva alla politica maggiori investimenti e, soprattutto, assunzioni nel campo degli ispettori e della medicina del lavoro. “Assurdo – ha dichiarato, commentando la morte della giovane operaia tessile – che una persona che fa il suo dovere e semplicemente lavora, debba morire per vivere lavorando”. E si muore perché “non ci sono abbastanza controlli, abbastanza attenzione, non si considera la sicurezza sul lavoro un vincolo, ma un costo”. Per questo è “assolutamente necessario fare assunzioni per la medicina del lavoro”, visto che gli addetti nei servizi ispettivi delle Asl sono calati da cinquemila a duemila. Così anche gli ispettori del lavoro. Per evitare che vi siano altre tragedie, se vogliamo imparare da questo dramma, abbiamo bisogno che si investa” e si aumentino i controlli sulle aziende che dovrebbero avere una “patente a punti”.
Ancora più nel dettaglio il commento di un’altra sindacalista della Cgil, Rossana Dettori, che ricorda qualche dato: i partiti, oltre a commuoversi, dovrebbero ricordarsi che esiste una Commissione monocamerale d’inchiesta sulle condizioni di lavoro e la sicurezza, creata nel 2019 proprio al Senato, ma non ancora costituita. Tutti parlano ma non si passa mai alle scelte fattuali. Eppure non c’è solo la Commissione. Ci sono anche le leggi, prima di tutte il “Testo unico su salute e sicurezza” del 2008, che i sindacati considerano una loro conquista. Ma le chiacchiere, purtroppo, si infrangono sui “fatti”, quelli di cui il filosofo Ludwig Wittgenstein diceva che si compone il mondo. Il tasso di irregolarità riscontrato dall’Ispettorato nazionale del lavoro nelle diecimila aziende ispezionate l’anno scorso, per verificare il rispetto delle norme sulla sicurezza, è stato del 79,3%. Il problema, poi, è che le imprese grandi e piccole, in Italia, sono milioni.
Un altro “fatto”. L’Ispettorato nazionale del lavoro, istituito dal Jobs Act con lo scopo di accorpare le funzioni di vigilanza del ministero del Lavoro, Inps e Inail, conta oggi 1.500 ispettori che peraltro devono svolgere anche compiti amministrativi perché i dipendenti complessivi sono solo 4.500 a fronte di una pianta organica di 6.500. All’Inail di ispettori ne sono rimasti solo 246, come ha dovuto ammettere Claudio Cominardi, deputato 5 Stelle in commissione Lavoro ed ex sottosegretario nel governo gialloverde. Poi ci sono le Asl e i loro servizi per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro: nel 2009, spiegano i sindacati, i dipendenti erano cinquemila tra ispettori e medici e già erano sotto organico, ora sono duemila. Mancano persone e mancano fondi: nel 2019 il governo Conte 1 (di cui Cominardi faceva parte), per poter alleggerire le tariffe pagate dalle imprese all’Inail per il fondo assicurativo generale contro gli infortuni, ha ridotto le risorse destinate ai piani di investimento per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il risultato è che i sopralluoghi fisici “in presenza”, come si direbbe in epoca pandemica, sono sempre meno. Anche se, quando si fanno, gli esiti sono preoccupanti.
Torniamo al bilancio annuale dell’Ispettorato, che si occupa prevalentemente del settore dell’edilizia: 8.068 aziende su 10.069 sono risultate irregolari e ognuna su più di un aspetto se le violazioni contestate sono state ben 12.541 di cui 12.020 penali. Metà degli illeciti riguarda la violazione di obblighi di protezione dai rischi di caduta dall’alto, incidenti che possono avere conseguenze gravissime, spesso mortali. Anche qui ci vengono incontro i numeri ufficiali dell’Inail sulla grande strage: 2015, 63.6672 infortuni sul lavoro di cui 1.155 mortali; 2016, 64.1154 infortuni di cui 1.021 mortali; 2017, 64.6970 infortuni di cui 1.037 mortali; 2018, 64.5395 infortuni di cui 1.122 mortali; 2019, 64.4803 infortuni di cui 1.023 mortali. In questi primi quattro mesi del 2021 le vittime sono state 121, a cui vanno aggiunti i 551 decessi di chi ha contratto il Covid al lavoro. Gli incidenti mortali sono dunque in aumento dell’11,4% nel primo trimestre, un andamento che rispecchia quello che è successo nel 2020, anno in cui le denunce con esito mortale sono state 1.270, 181 in più rispetto al 2019, con una crescita del 16%.
Sempre nella logica di seguire le “tracce”, ricordiamo che esattamente due anni fa, aprile 2019, l’allora ministro del Lavoro, nonché vicepresidente del Consiglio del governo Conte 1, Luigi Di Maio, annunciò su Twitter un taglio delle imposte sul lavoro pagate dagli imprenditori che in alcuni casi sarebbe arrivato fino al 30%. Un “alleggerimento” per le imprese che è stato finanziato da un taglio di circa mezzo miliardo in tre anni ai fondi che servono a incentivare gli imprenditori a migliorare la sicurezza sul posto di lavoro, proprio mentre con una sentenza della Cassazione, è stata ridotta la possibilità per i lavoratori di ottenere rimborsi in caso di infortunio. Per ripianare questo buco nel bilancio dell’Inail generato dal taglio delle tasse agli imprenditori, la legge di stabilità per il 2019 ha stabilito esplicitamente, al comma 1.122, una serie di tagli ai fondi destinati a incentivare la prevenzione degli infortuni e agli sconti per chi migliorava la sicurezza nella propria azienda (che erano stati aumentati proprio nel 2018). Questi tagli ammontano a poco meno di cinquecento milioni di euro in tre anni. Ironia tragica della cronaca. Il comma di cui si parla si chiama “1.122”. È esattamente lo stesso numero degli incidenti mortali avvenuti nel 2018. L’allora sottosegretario della Lega, Claudio Durigon, fu uno dei politici che si intestò il merito dell’operazione insieme al suo ministro Di Maio. Gli imprenditori – soprattutto quelli leghisti – applaudirono.
La ripresa degli infortuni mortali, ha scritto su Repubblica Marco Ruffolo, avrebbe dovuto affrettare anche nel nostro Paese la nascita di un unico corpo di ispettori, coordinati da un solo organismo statale. Così come hanno fatto gli inglesi: già molti anni fa, di fronte a una preoccupante ondata di infortuni, hanno messo in piedi un’agenzia, chiamata Health and Safety Executive, con ispettori molto qualificati che non si occupano solo di reprimere e sanzionare, ma soprattutto di spingere le imprese al rispetto delle norme di sicurezza, alla percezione del rischio, in una parola all’autocontrollo. Ma l’esempio inglese non ha fatto breccia nell’anima burocratica e corporativa del nostro Paese.
Da noi almeno quattro organismi sono tenuti a intervenire per controllare i luoghi di lavoro. La titolarità principale della vigilanza sulla sicurezza spetta alle Asl: dunque è di competenza regionale, con circa 160mila ispezioni l’anno su quasi due milioni di imprese. Ma dei circa cinquemila operatori addetti ai servizi di prevenzione, sembra che solo 2.800 abbiano la qualifica di polizia giudiziaria, con poteri di indagini in loco e di sanzione.
Poi c’è il nuovo Ispettorato nazionale del lavoro, dove sono confluiti gli ispettori di Inps, Inail e del ministero del Lavoro, non sempre collaboranti tra loro e retribuiti in misura diversa. Ma l’Ispettorato si occupa solo marginalmente di sicurezza (non più di quindicimila interventi l’anno), mentre il grosso dei controlli (140mila) riguarda la regolarità dei contratti di lavoro e il rispetto degli obblighi contributivi. Ecco perché, dei quasi cinquemila dipendenti dell’Ispettorato, solo trecento hanno capacità tecniche in tema di sicurezza. E a differenza delle Asl, che possono intervenire ovunque, quei trecento ispettori si occupano solo di cantieri edili, di cassoni ad aria compressa e di altre lavorazioni ad altissimo rischio. Infine, interviene un nucleo di circa quattrocento carabinieri, al quale ovviamente va aggiunto l’apporto dei Vigili del fuoco per il rispetto delle norme anti-incendio. A conti fatti, ma nessuno ne certifica l’ufficialità, a vigilare su sicurezza e salute dovrebbero essere quindi non più di quattromila ispettori con poteri di polizia giudiziaria. Pochi, ma soprattutto scoordinati. Se ne lamenta perfino lo stesso direttore generale dell’Inail, Giuseppe Lucibello.
C’è tutto questo, insomma, dietro il palcoscenico mediatico. Ci sono fatti e precise responsabilità politiche e perfino etiche. Ma la commozione dura appunto un attimo e non è neppure così allargata come ci si sarebbe potuto aspettare. Lo ha fatto notare Natalia Aspesi su Repubblica, rivolgendosi in particolar modo alle giovani donne: “Non ho visto sui social una grande partecipazione da parte di voi ragazze, al di là della cronaca bruta dove non c’è un attimo di commozione, di partecipazione, di ribellione perché non è il suo compito, che invece sarebbe il nostro, dei nostri valori di donna, delle nostre battaglie femministe; che, perdonatemi, in occasione di questi delitti, sì, si tratta di delitti, sempre più paiono egoiste, accentrate sulla singola persona, in solitudine, in milioni di solitudini. La cronaca racconta possibilmente la verità dei fatti, e se ancora la vita e la morte di Luana ci parranno degne di interesse, sapremo delle responsabilità, delle inchieste, dei processi. Però che strano, è come se Luana fosse già archiviata, il suo ricordo impolverato, la sua vita mai esistita”.
Salvo per qualcuno, possiamo aggiungere noi alle considerazioni di Natalia Aspesi, utilizzando le parole di una mamma: “Adesso faremo quel che c’è da fare – ha detto la signora Emma Marrazzo, madre di Luana –, avremo gli avvocati, ci siamo affidati a uno studio. Io non odio nessuno, non sono io la giudice. Chiedo solo giustizia, Luana la merita per tutti noi. Dice che Dio prende quelli meglio, ma a me faceva piacere se me l’avesse lasciata. Mi mancherà tanto”.