La Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere la richiesta dell’industria agrobiotecnologica di non applicare ai “nuovi Ogm” (che l’industria stessa e ora anche l’esecutivo comunitario chiamano “Ngt”, ovvero “nuove tecniche genomiche”) la legislazione Ue in vigore ormai da molti anni per le coltivazioni geneticamente modificate e gli alimenti e ingredienti che ne derivano. È una legislazione che prevede un rigoroso regime di autorizzazione per ogni nuovo Ogm introdotto sul mercato europeo, sia per le coltivazioni che per gli alimenti importati, e impone obblighi di tracciabilità e di etichettatura per lasciare piena scelta agli agricoltori, gli allevatori (soia e mais usati nei mangimi sono spesso transgenici) e soprattutto ai consumatori, nonché per evitare la contaminazione delle colture tradizionali o biologiche.
Il 29 aprile, la Commissione ha pubblicato uno studio su questi Ogm di nuova generazione, a cui attribuisce “il potenziale di contribuire a un sistema alimentare più sostenibile nel quadro degli obiettivi del Green Deal europeo e della strategia ‘dal produttore al consumatore’ farm to fork”, e ha annunciato che comincerà ora “un processo ampio e aperto di consultazione per discutere il progetto di un nuovo quadro giuridico per queste biotecnologie”, perché l’attuale legislazione “non è più adatta” ai nuovi Ogm e deve pertanto “essere adeguata al progresso scientifico e tecnologico”.
Il tentativo di escludere i nuovi Ogm dal campo di applicazione delle normative Ue non è nuovo, ma aveva subito un duro colpo da una sentenza della Corte europea di giustizia del 25 luglio 2018 che aveva stabilito invece la validità, anche per le “nuove tecniche genomiche”, dell’attuale legislazione Ue sulle colture e i prodotti geneticamente modificati, e in particolare della Direttiva Ue 2001/18, che aveva sostituito e completato, a partire dal 2001, la prima direttiva sugli Ogm del 1990 (Ce 90/220).
Il rapporto presentato dalla Commissione era stato richiesto dal Consiglio Ue l’8 novembre 2019, proprio “alla luce della sentenza della Corte di giustizia sullo status delle nuove tecniche genomiche ai sensi del diritto dell’Unione”. L’esecutivo comunitario aveva quindi affidato l’elaborazione dello studio ai suoi servizi competenti per le biotecnologie, dopo aver consultato il suo Centro comune di ricerca (Jrc), l’Autorità europea di sicurezza alimentare (Efsa), la Rete europea di laboratori per gli Ogm (più di cento laboratori in tutti i paesi europei), gli Stati membri e diversi portatori d’interesse, nonché il Gruppo europeo sull’etica nelle scienze e nelle nuove tecnologie.
Il rapporto conclude che i nuovi Ogm “possono contribuire alla sostenibilità dei sistemi alimentari con piante più resistenti alle malattie, alle condizioni ambientali e agli effetti dei cambiamenti climatici”; inoltre, “possono beneficiare di qualità nutrizionali più elevate, quali un tenore più sano di acidi grassi, e di una minore necessità di fattori della produzione agricola come i pesticidi”. I nuovi Ogm, insomma, possono “contribuire agli obiettivi dell’Ue in materia di innovazione e sostenibilità dei sistemi alimentari, nonché a un’economia più competitiva”.
Le nuove tecniche genomiche riguardano tre tipi di ingegneria genetica: la mutagenesi, che causa una modifica del genoma senza l’inserimento di materiale genetico, attraverso agenti mutageni; la cisgenesi, che prevede invece l’inserimento di geni appartenenti alla stessa specie o a specie affini, sessualmente compatibili, e riproduce quindi delle variazioni che potrebbero potenzialmente avvenire in natura; e infine la transgenesi, che consiste nell’inserimento di geni estranei, provenienti da specie diverse e sessualmente incompatibili, e a volte persino da “regni” diversi (il gene di un pesce inserito in una pianta, per esempio). La novità rispetto agli Ogm tradizionali sta nel fatto che questi erano soprattutto il prodotto di transgenesi, e che la genomica (una disciplina relativamente nuova, basata sulle tecniche di sequenziamento e mappatura dei genomi) è molto più precisa e mirata delle tecniche di ingegneria genetica utilizzate in precedenza.
Basta questo per considerare come i nuovi Ogm presentino un profilo di rischio equivalente a quello del traditional breeding, ovvero degli incroci che tradizionalmente sono praticati nelle tecniche agronomiche per migliorare e selezionare piante con qualità migliori o caratteristiche particolari, come si fa da quando è nata l’agricoltura? E che quindi non occorrano procedure di autorizzazione alla coltivazione e alla commercializzazione, obblighi di tracciabilità ed etichettatura, misure per evitare contaminazioni? È una domanda che forse potrebbe avere un senso per la mutagenesi e per la cisgenesi, molto meno per la transgenesi, che è comunque un intervento artificiale, una forzatura innaturale, e comporta ovviamente un rischio di effetti non intenzionali e imprevisti, magari di lungo termine, rispetto ai processi naturali del traditional breeding.
Anche la Commissione si rende conto di questa differenza, visto che propone, almeno per ora, di considerare una revisione della regolamentazione per adattarla, sì, alle nuove tecniche genomiche, ma solo a quelle relative alla mutagenesi e alla cisgenesi, e solo per le piante. Tuttavia, la deregolamentazione, una volta avviata, potrebbe essere più facilmente estesa anche alla transgenesi. Resta il fatto che lo studio della Commissione appare molto squilibrato a favore delle posizioni dell’industria biotech, di cui fa proprie praticamente tutte le argomentazioni sui supposti vantaggi degli Ogm, e poco attento alle obiezioni del fronte opposto, che minimizza o ignora.
Sono gli stessi vantaggi che erano stati rivendicati in passato dall’industria agrobiotecnologica, e che non si sono mai verificati nella realtà. Gli Ogm che sono stati coltivati su scala significativa nell’agricoltura mondiale (contribuendo molto alla diffusione delle monocolture, alla perdita di biodiversità, e anche al land grabbing, l’accaparramento delle terre dei contadini) sono solo di due tipi: quelli contenenti il gene Bt, nocivo per gli insetti parassiti delle piante; e soprattutto quelli tolleranti agli erbicidi totali come il glifosato, che possono così essere sparsi sulle piantagioni transgeniche eliminando selettivamente solo le erbe infestanti. Non si sono viste, invece, coltivazioni di Ogm resistenti alla siccità, o modificati per essere più nutrienti o biofortificanti, né miracolosi aumenti della produzione alimentare per “nutrire il mondo”.
Le colture transgeniche hanno mantenuto solo le promesse che interessavano davvero al business dell’agroindustria biotech: aumentare i profitti delle multinazionali, vendere ogni anno le sementi brevettate, che non possono essere riprodotte dagli agricoltori, continuare a vendere i pesticidi “della casa” che i coltivatori sono obbligati a comprare per contratto, creare concentrazioni e monopoli a livello globale, promuovere l’agricoltura industriale e intensiva.
Contraddicendo clamorosamente l’argomento dei produttori, ripreso oggi dalla Commissione, secondo cui i nuovi Ogm potrebbero ridurre l’uso di pesticidi, la realtà ha dimostrato, in molti casi, che gli Ogm tolleranti agli erbicidi hanno passato questo tratto proprio alle erbe infestanti. E questo ha portato alla necessità di aumentare la quantità e diversificare le tipologie dei pesticidi utilizzati. Quanto agli Ogm “con insetticida incorporato”, è stato dimostrato che, oltre a eliminare le larve degli insetti parassiti, erano nocivi anche per le farfalle e, in generale, per la biodiversità.
Lo studio sarà oggetto di discussione fra i ministri dell’Ue durante il prossimo Consiglio Agricoltura a fine maggio. La Commissione discuterà inoltre le sue conclusioni con il parlamento europeo e con tutti i soggetti interessati. Il sospetto è che, dopo l’acquisizione della Monsanto da parte della Bayer, sia diventata più raffinata e meno resistibile la pressione esercitata da una lobby ormai più tedesca che americana sulle istituzioni Ue; una lobby che avrebbe tutto l’interesse a far dimenticare lo stigma negativo degli Ogm nella percezione dell’opinione pubblica europea, risultato di decenni di lotte degli ambientalisti, dei consumatori, delle associazioni contadine e della società civile. Un’operazione di marketing e di rebranding, insomma, che la Commissione oggi sembra voler sostenere, con una deregolamentazione che rischia di alienare le simpatie del fronte ambientalista per il Green Deal, su cui tanto ha puntato l’esecutivo comunitario di Ursula von der Leyen.