Leggendo le numerose pagine del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) mi è venuto in mente un detto napoletano: facimm ’o fummo c’a manovella, il che sarebbe come mettersi sotto al Vesuvio per produrre a mano il caratteristico pennacchio. Perché se è vero che nel piano, come dice Luciana Castellina (il manifesto del primo maggio), “c’è una sottile linea di verde, […] tuttavia, per esser riconosciuta come tale, ha bisogno che vengano spiegate ufficialmente molte scelte fino a ora lasciate nell’ambiguità perché frutto di decisioni prese in incontri non resi pubblici”. Per quanto riguarda la missione 2 (e non solo), “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, l’impressione è che si tratti di una ristrutturazione capitalistica che punta sostanzialmente sulle tecnologie per ridurre gli impatti ambientali, però non rinunciando all’uso dei gas. Niente che possa far pensare a un nuovo modello di sviluppo, come da molti auspicato.
Gli obiettivi dichiarati nel Pnrr sembrano condivisibili, e infatti alla p. 126 si legge: “Serve una radicale transizione ecologica verso la completa neutralità climatica e lo sviluppo ambientale sostenibile per mitigare le minacce a sistemi naturali e umani: senza un abbattimento sostanziale delle emissioni clima-alteranti, il riscaldamento globale raggiungerà e supererà i 3-4 °C prima della fine del secolo, causando irreversibili e catastrofici cambiamenti del nostro ecosistema e rilevanti impatti socio-economici”.
Se non altro, non si minimizzano i possibili e devastanti effetti del cambiamento climatico per effetto dei gas climalteranti. Subito dopo (pp. 126-127), si aggiunge: “Gli obiettivi globali ed europei al 2030 e 2050 […] sono molto ambiziosi. Puntano a una progressiva e completa decarbonizzazione del sistema […] e a rafforzare l’adozione di soluzioni di economia circolare, per proteggere la natura e le biodiversità e garantire un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente”.
In particolare per il sotto-obiettivo 2 (“transizione ecologica e mobilità sostenibile”), si legge: “particolare rilievo è dato alle filiere produttive. L’obiettivo è quello di sviluppare una leadership internazionale industriale e di conoscenza nelle principali filiere della transizione, promuovendo lo sviluppo in Italia di supply chains competitive nei settori a maggior crescita, che consentano di ridurre la dipendenza da importazioni di tecnologie e rafforzando la ricerca e lo sviluppo nelle aree più innovative (fotovoltaico, idrolizzatori, batterie per il settore dei trasporti e per il settore elettrico, mezzi di trasporto)”.
Ma bisogna leggere attentamente tra le righe del Pnrr per capire come questi obiettivi, certamente condivisibili, siano realizzabili attraverso l’uso di sistemi energetici alternativi nell’ottica di una decarbonizzazione. Due questioni, tra le altre, appaiono inquietanti fino a quando non si deciderà concretamente come realizzarle. La prima riguarda la tecnica del CCS (Carbon Capture and Sequestration), ovvero del sequestro di carbonio. E qui spunta l’Enel verso cui sono indirizzati rilevanti quote del Pnrr. Perché l’Enel avrebbe messo a punto proprio una tecnologia detta CCS. Quindi niente più proibizione dell’uso dei combustibili fossili (che l’Enel continuerebbe a utilizzare), ma seppellimento sotto la crosta terrestre del gas più nocivo alla biosfera: la CO2.
In proposito, sostiene Federico Butera (il manifesto del 28 gennaio 2021): “L’idea è semplice, a parole: si preleva la CO2 emessa dalla ciminiera di una fabbrica o da una centrale elettrica e la si immette in una tubazione che la trasporta da qualche parte dove viene pompata sottoterra; e sottoterra dovrebbe rimanere per sempre. In questo modo, pur bruciando un combustibile fossile, la concentrazione della CO2 in atmosfera non aumenterebbe. Semplice e geniale, dicono i sostenitori. Pericoloso e concettualmente inaccettabile, dicono i detrattori.
Ma come stanno veramente le cose? Questa operazione, ovviamente, non è gratis: richiede energia e conseguenti emissioni, oltre a grandi quantità di prodotti chimici – per produrre i quali occorrono energia (quindi emissioni) e risorse fisiche; trasportare e iniettare la CO2 sottoterra, cioè pompare; e per pompare gas occorre energia, e tanta, con relative emissioni”. A parte le possibilità, tutt’altro che teoriche, di rischi di terremoti o altri eventi che libererebbero in un sol colpo la CO2 seppellita.
In proposito, ancora Luciana Castellina afferma che: “Ora 1,35 di questi miliardi sarebbero – è stato annunciato – destinati al megadeposito previsto a Ravenna, un’impresa per nulla garantita dalla scienza, anche per via della criticità ambientale della costa adriatica. Sarà il più grande del mondo, e non sembra presentare alcun vantaggio dal punto di vista economico: il solo impianto simile esistente, quello nel Texas, del resto, verrà chiuso il 26 giugno prossimo perché i suoi costi si sono rivelati troppo alti”.
La seconda questione è quella dell’idrogeno. Lo stesso Pnrr (p. 146) ammette che: “ad oggi l’idrogeno è principalmente prodotto in loco nella sua forma ‘grigia’, cioè dal gas, ma questo processo non è privo di emissioni”. Dunque, anche in questo caso si farebbe ricorso a gas. Ci sarebbe invece un’alternativa, afferma sempre Butera, “che è l’idrogeno verde, cioè l’idrogeno prodotto attraverso l’elettrolisi dell’acqua con energia elettrica proveniente da fonte rinnovabile. Vero è che l’idrogeno non è competitivo con il gas, ma se all’attuale costo del gas aggiungiamo quello della CCS, la distanza si accorcia alquanto, e forse si annulla, se si considerano tutti i fattori, rischio incluso. E poi, quello dell’idrogeno è un ciclo chiuso: si parte dall’acqua, scindendola nei suoi componenti idrogeno e ossigeno, e all’acqua si torna quando si brucia l’idrogeno e si ricombina con l’ossigeno. Il tutto alimentato da energia rinnovabile. Non a caso è sull’idrogeno verde che il Green Deal Europeo ha puntato, e per svilupparlo ha messo a disposizione ingenti risorse”.
In sostanza le lobby fossili nazionali (Enel in testa) ed europee non rinuncerebbero facilmente all’uso del gas e lo stesso ministro Cingolani ha affermato che il gas sarebbe indispensabile per una lunga fase di transizione nella quale l’uso di energie alternative sarebbe considerata una sperimentazione. Dunque è opportuno sospendere ogni giudizio fino a quando non sapremo bene che cosa verrà concretamente fatto per realizzare l’obiettivo della decarbonizzazione. Ma da subito è bene vigilare sull’uso di tecnologie che fanno ancora uso di gas, come per esempio produrre l’idrogeno per giustificare l’uso del metano.