
I due fenomeni dell’intermediazione illecita di manodopera e di sfruttamento del lavoro sono stati oggetto di intensi dibattiti e sono stati recepiti dalla legge italiana come reati. C’è stato infatti bisogno di introdurre un articolo nel Codice penale, il numero 603 bis, una fattispecie precisa di reato che intende colpire il fenomeno del “caporalato” che è tuttora presente, soprattutto in alcune aree del Sud Italia e in particolare nel settore dell’agricoltura e nell’edilizia. Ma il legislatore, i sindacati, le forze di polizia e la magistratura hanno scoperto più recentemente che le forme di sfruttamento e di intermediazione illecita del lavoro non si manifestano solo sui campi. Anche il nuovissimo lavoro “digitale” delle piattaforme, quel digital labor venuto prepotentemente alla ribalta con le mobilitazioni dei rider, è colpito dall’antico vizio di sfruttare il lavoratore. Vecchio e nuovo, anche in questo caso, convivono.
Già alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, c’è stato qualcuno che aveva cominciato a parlare di nuove forme di schiavitù per quanto riguarda la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento del lavoro dequalificato degli immigrati, molto spesso ricattati perché in condizioni di clandestinità. Ma ora il discorso è un altro e non riguarda più solo quelle forme estreme che pesano sugli immigrati. Non si tratta più, cioè, di vera e propria schiavitù, ma l’intermediazione illecita e lo sfruttamento che colpiscono persone “libere” sono diventate in molte zone e in molte realtà la norma. Ed è un fenomeno che non solo travalica i confini settoriali dell’agricoltura e dell’edilizia, ma risulta molto più allargato e molto più presente nel Paese anche se lo si analizza dal punto di vista geo-economico.
Da Sud a Nord
Sono state tante, infatti, le notizie di cronaca, di arresti o inchieste giudiziarie che hanno interessato “caporali” del Sud come del Nord. Stiamo parlando di quella “grave forma di sfruttamento” della manodopera, che si materializza nel reclutamento, da parte di soggetti spesso collegati con organizzazioni criminali, di operai generici e nel loro trasporto sui campi o presso i cantieri edili per essere messi a disposizione dell’impresa. In questi settori i lavoratori non hanno neppure il “privilegio” di avere contatti con le aziende che li reclutano. Nei casi di cronaca di questi anni, abbiamo potuto così scoprire che spesso è lo stesso caporale il delegato alla retribuzione degli operai, avendo però anche la possibilità-privilegio di prelevare una “stecca”. Polizia e magistrati hanno spiegato che questi personaggi, oltre a mettersi in tasca una parte delle retribuzioni, sono anche incaricati del controllo dei lavoratori, con l’imposizione di orari e forme di organizzazione del lavoro ovviamente indiscutibili e da eseguire pena ritorsioni. Inoltre – sempre a stare alle ricostruzioni giornalistiche – spesso si tratta di lavoro irregolare, “in nero”, il grande bacino del “sommerso” che continua a caratterizzare l’economia nazionale, con inevitabili ricadute sull’evasione fiscale e contributiva. Le violazioni delle norme di legge e dei contratti sono all’ordine del giorno.
Il Codice penale
La legge è chiara. L’articolo 603-bis del Codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce “chiunque svolga una attività organizzata di intermediazionereclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori…”. Gli esperti spiegano infatti che “l’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è un reato grave, collocato nel codice penale nel titolo XII del Libro II tra i delitti contro la persona, in particolare tra i delitti contro la libertà individuale, ed è punito con la pena base della reclusione da cinque a otto anni e con la multa da mille a duemila euro per ciascun lavoratore reclutato.
Qualche numero
Ma quanti sono i lavoratori e le lavoratrici coinvolte dal fenomeno in agricoltura e nei settori tradizionali? Sono circa 180mila i lavoratori vulnerabili ed esposti a fenomeni di sfruttamento e caporalato in Italia. Ad aggiornare le stime è stato il quinto Rapporto agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. Come i precedenti rapporti, lo studio fotografa la situazione degli ultimi due anni (ottobre 2018-ottobre 2020) in merito allo sfruttamento lavorativo nel settore agroalimentare e le criticità dei rapporti di lavoro dovute a “contratti ingannevoli e a raggiri perpetuati a danno dei lavoratori”, spiega la Flai Cgil. “A livello nazionale l’Osservatorio Placido Rizzotto ha prodotto delle nuove stime che seguono quelle effettuate nei rapporti precedenti – si legge nel report –. L’ultima delle quali faceva ammontare la componente vulnerabile a circa 140mila unità (al 2017). L’anno successivo (2018) anche il Ministero del Lavoro produce una stima al riguardo, che ammonta a circa 160mila. Nel biennio 2018-2019 L’Osservatorio sposta ancora più in alto la stima, portandola a circa 200mila unità. Cosicché queste componenti oscillano tra una stima minima di 160mila e una massima di 200mila, e prudenzialmente possiamo attestarla a 180mila unità”.
Un fenomeno che non riguarda più soltanto il Sud Italia, come sottolinea Giovanni Mininni, segretario generale della Flai-Cgil. “I fenomeni di sfruttamento, lavoro sommerso e caporalato non sono più appannaggio esclusivo di quelle regioni del Mezzogiorno – scrive Mininni –, ma anzi li ritroviamo anche in alcune aziende della ricca agricoltura della Franciacorta o del veronese”. Per Mininni, i confini di questa “agricoltura malata” si sono “estesi all’intero territorio nazionale”.
Caporal algoritmo
E non c’è in ballo solo l’agricoltura. Dalle carte di una inchiesta giudiziaria che si è sviluppata tra il 2017 e il 2020, e raccontata da Roberto Ciccarelli su il manifesto, emerge la durezza del caporalato digitale che tratta la forza lavoro come un “servizio umano”, secondo una celebre definizione coniata da Jeff Bezos che richiama una categoria del diritto romano usata per indicare il lavoro servile disumanizzato. “È vergognoso che l’azienda per cui lavoriamo non ci tuteli affatto. Prendiamo acqua, vento, freddo e gelo. Ci picchiano, ci derubano e ci deridono ma nessuno fa nulla. Il mio è uno sfogo ma spero serva di lezione per tutti”, ha dichiarato un rider di Benevento, 750 consegne in quasi sette mesi e “soltanto due recensioni negative”, sospeso per qualche giorno per aver difeso un collega accusato ingiustamente dal manager di un locale “di aver mangiato il panino di un ordine”.
Dall’inchiesta sono emersi anche casi di pericolosa esposizione al Covid. Dall’indagine della magistratura, scrive Ciccarelli, emerge la descrizione, cruda e realistica, della disciplina impartita dalle piattaforme per organizzare la forza lavoro tramite algoritmo. Questo è il ruolo del ranking per classificare il rendimento e aumentare la performatività obbligata ai rider. “Non lavorare in alcuni giorni e fasce orarie porta alla retrocessione – si legge –, è impossibile usufruire di ferie e malattia. Si è accertato che si ricorre all’espediente di cedere temporaneamente l’account a terzi in grado di garantire le stesse prestazioni. È una pressione continua alla quale non ci si può sottrarre per evitare di essere retrocessi”. E poi uno schiaffo a tutti coloro che elogiano il modello delle piattaforme e dell’algoritmo a prescindere: “Il rider non è affatto un lavoratore occasionale che svolge una prestazione in autonomia e a titolo accessorio. Al contrario, è inserito nell’organizzazione d’impresa e opera nel ciclo produttivo del committente che coordina il suo lavoro a distanza attraverso un’applicazione digitale preinstallata su smartphone o tablet”.
E il sindacato?
Secondo il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini (che è intervenuto anche su un sito web specializzato come Agenda Digitale), le nuove forme di capitalismo perpetrano le vecchie forme di sfruttamento, e c’è bisogno di azione sindacale e di una complessiva riflessione su quale sia oggi l’oggetto del conflitto. In particolare, la contraddizione tra il diritto di proprietà e la libertà della persona nel lavoro. “In fondo – dice Landini – la nostra convinzione è rimasta la medesima che ha motivato e sostenuto la lunga stagione di lotte sindacali del secolo scorso, ossia che l’azione collettiva è necessaria e imprescindibile per superare la naturale asimmetria tra capitale e lavoro. Di certo non possiamo eludere la constatazione che i rapporti di produzione cambiano e si affinano, nell’organizzare ritmi e modalità di lavoro, servendosi delle enormi potenzialità della tecnologia digitale, ed è per questo che, da qualche anno a questa parte, proponiamo la necessità di contrattazione dell’algoritmo. La potenza di calcolo algoritmica, infatti, coniugata con la capacità delle macchine di autoapprendere, con il sempre maggiore utilizzo di strumenti d’intelligenza artificiale e la massiva disponibilità di dati da analizzare, costituisce uno strumento formidabile di sfruttamento”.
Le più avanzate applicazioni della tecnologia digitale sovvertono modalità e forme organizzative tradizionali mediante un processo di disintermediazione che rende ancora più forte la disparità tra capitale e lavoro e afferma un assetto economico caratterizzato da flessibilità, autonomia, decentralizzazione. “Dunque – secondo il leader della Cgil – bisogna intervenire a monte, perché la tecnologia non è neutra e l’algoritmo è figlio di una programmazione del tutto umana, che ne stabilisce finalità e modalità di funzionamento. Se il paradigma tecnologico digitale produce un lavoro più differenziato e le esigenze e le condizioni di lavoro si personalizzano, senza una contrattazione d’anticipo ed esclusiva, si rischia il mancato riconoscimento dei diritti, delle tutele e delle garanzie a tutte le lavoratrici e lavoratori”.
L’augurio del papa
L’impegno e i sacrifici dei lavoratori della filiera agroalimentare in tempo di pandemia e lo sfruttamento e l’emarginazione dei braccianti immigrati: c’è stato tutto questo nel cuore e nelle parole di papa Francesco che, in una lettera a firma del sostituto della Segreteria di Stato, Edgar Peña Parra, ha voluto rispondere al segretario generale della Fai Cisl, Onofrio Rota, che aveva chiesto conforto e attenzione per le criticità che segnano il settore agricolo.
Il sostituto della Segreteria di Stato riferisce della vicinanza di Francesco “ai tanti lavoratori che, nell’ambito della filiera agroalimentare, si stanno notevolmente impegnando, tra non pochi rischi e difficoltà, per provvedere i necessari generi alimentari alla comunità”. “Il papa – prosegue – li ricorda nella preghiera, mentre porta nel cuore la dolorosa situazione dei braccianti provenienti da vari Paesi, che si vedono relegati ai margini della società e patiscono condizioni di sfruttamento inaccettabili”. Nel messaggio si esprime “condivisione” rispetto alla necessità espressa dal sindacato di regolarizzare attività sommerse di uomini che, oggi più che mai, sono esposti a rischi di contaminazione perché non in sicurezza, e che stanno garantendo comunque la fornitura di cibo sulle tavole. “È certamente condivisibile – si legge nella lettera – la necessità di venire incontro a quanti, privati di dignità, avvertono in modo più acuto le conseguenze di un’integrazione non realizzata, venendo ora maggiormente esposti ai pericoli della pandemia. È dunque auspicabile che le loro situazioni escano dal sommerso e vengano regolarizzate, affinché siano riconosciuti ad ogni lavoratore diritti e doveri, sia contrastata l’illegalità e siano prevenute la piaga del caporalato e l’insorgere di conflitti tra persone disagiate”.