Ogni città americana ha il suo George Floyd. Non si erano ancora chiuse le aule del processo per l’uccisione di Floyd che già morivano per mano della polizia altri neri in altre città americane. E non si tratta solo della sedicenne uccisa per una futile lite tra ospiti di una struttura psicosanitaria, le cui immagini, sulla scia del processo, hanno fatto rapidamente il giro del mondo, o dello ispanoamericano soffocato ieri. C’è un continuo stillicidio di vittime.
Il sito Research Department, che elabora dati ufficiali del governo, comunica infatti nel suo report di fine marzo che “tristemente” il numero degli uccisi in sparatorie “fatali” negli Stati Uniti pare crescere nuovamente, dopo qualche anno in cui i numeri (peraltro altissimi) sembravano stazionari o lentamente ridimensionarsi. E questo nonostante le restrizioni agli spostamenti introdotte dalla pandemia.
Solo nei primi tre mesi del 2021 sono morte duecentotredici persone in seguito all’intervento delle forze dell’ordine: di queste ben trenta erano nere. Nel 2020 il numero complessivo si era attestato intorno ai mille morti e un dato analogo era quello del 2019, con una percentuale di vittime che toccava per oltre il 30% i neri e per il 10% i latinos e le altre minoranze. Sulla questione della composizione razziale delle vittime della polizia, è stato recentemente pubblicato un allarmato rapporto in una prestigiosa rivista accademica come il Journal of Epidemiology & Community Health, che ha preso in esame l’andamento dei dati delle uccisioni per il quinquennio 2015-2020.
Sono morti di cui si parla solo quando gli omicidi avvengono in circostanze estreme o clamorose, o vengono ripresi in qualche video, altrimenti passano pressoché inosservate, dato che fanno parte della gestione “normale” dell’ordine pubblico negli Stati Uniti, in cui l’utilizzo di una violenza spropositata contro le minoranze è una componente della vita di tutti i giorni. Va ricordato che le percentuali nordamericane di vittime di fatal shooting che vedono coinvolti agenti sono tre volte maggiori di quelle del Canada, in cui pure la polizia non scherza, e venti volte maggiori delle uccisioni in situazioni analoghe nei paesi europei. Tanto per fare un esempio di questi giorni, nel Regno Unito sono morte tre persone dall’inizio dell’anno in sparatorie che hanno coinvolto la polizia contro le duecentotredici riportate dalle statistiche americane. Anche tenendo conto della differenza nel numero di abitanti tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, si tratta di un divario esorbitante.
La brutalità e la facilità con cui la polizia americana ricorre alle armi e il suo orientamento discriminatorio sono profondamente radicati nella storia del paese. Ne sono state date molte letture: studi storici hanno mostrato come buona parte dei linciaggi di neri, fino agli anni Trenta del Novecento, venisse compiuta alla presenza, con il contributo diretto o con la tacita complicità, delle forze dell’ordine; altri studi hanno insistito su una recente ed estrema radicalizzazione dei corpi. La politica si è da tempo divisa: se i liberal hanno richiamato la necessità di limitare l’uso delle armi, da parte conservatrice si è lungamente insistito su posizioni giustificazioniste, chiamando in causa “pressione sociale”, “impreparazione” e “necessità di ampliare gli organici”.
Le morti sono diventate però solo da qualche anno un problema ricorrente e un tema caldo nelle agende dei politici. La questione ha assunto rilevanza con l’omicidio del diciottenne Michael Brown a Ferguson nel 2014, assassinato mentre, a mani alzate e disarmato, veniva sottoposto a un controllo di routine, la cui uccisione provocò un riot durato diversi giorni. Ma si potrebbe andare più indietro nel tempo. Il movimentoBlack Lives Matter muove i suoi primi passi sul finire del 2013 a testimoniare una situazione già compromessa da tempo: prima di Brown, infatti, aveva destato scalpore la morte di Eric Garner, piccolo rivenditore di sigarette di contrabbando, soffocato dalla polizia con una “manovra di contenimento” alla Floyd. Raramente gli agenti responsabili di queste morti sono stati puniti. La stessa rivolta del 1992 a Los Angeles – al grido di no justice, no peace – nasceva da un’assoluzione di poliziotti responsabili di un violento pestaggio. E negli stessi giorni in cui i media davano enorme rilievo al processo Floyd, passava quasi inosservata un’altra sentenza che riteneva per il momento non punibile Darren Wilson, l’agente che aveva sparato a Michael Brown nel 2014.
Gli omicidi sono, tra l’altro, più frequenti nelle zone povere e nei quartieri ghetto di quanto non lo siano nelle zone di ceto medio, a testimoniare una situazione insostenibile in molte città americane, in cui – come ha giustamente rilevato un intellettuale nero, Cornell West – si dispiega “un esperimento sociale fallito”. La miseria e la disuguaglianza sono sempre più evidentemente spazializzate, mentre la divisione interna delle città lungo le linee di razza e di classe è marcata da frontiere visibili e invisibili. Molto spesso le uccisioni avvengono proprio su queste linee di confine, e servono a rimarcare quali spazi sono praticabili e quali non lo sono. Non bisogna mai farsi trovare “fuori luogo”.
In un contesto in cui il razzismo si è fatto istituzione, diviene pressoché normale un accanimento poliziesco che trova nelle morti la sua manifestazione più clamorosa, ma è fatto al tempo stesso di un’attenzione sproporzionata riservata a minime infrazioni commesse dalle minoranze. Anche semplicemente non pagare un parcheggio può avere conseguenze imprevedibili.
E intanto il ghetto ribolle, con i suoi confini controllati in maniera sempre più arcigna, mentre gli effetti della povertà, della segregazione e dell’isolamento spaziale nei suburbs e nelle inner-cities, dimenticati dall’azione pubblica, sono sotto gli occhi di tutti. Così l’altra epidemia, quella delle uccisioni da parte degli agenti, dilaga; mentre nei ghetti è da tempo viva la convinzione che la polizia è solo “la gang più forte là fuori”, come disse nel ghetto nero di Chicago un intervistato al sociologo Loic Wacquant. Il monito non potrebbe essere più chiaro: una società come quella americana così quotidianamente esposta a eventi traumatici e alla violenza, che continua a vivere sotto il segno dell’ingiustizia e dell’oppressione delle minoranze, dovrà rivedere profondamente alcune sue modalità di funzionamento e ritrovare la funzione della politica, se vorrà evitare di trovarsi di fronte all’esplosione di conflitti di portata ben maggiore.