Accade, con le personalità grandi e controverse, che non sia facile parlarne. Nel suo caso, non per l’abiura delle giovanili simpatie rivoluzionarie, rinnegate ormai da quasi mezzo secolo in favore d’un liberalismo d’incerti principi. Se ancora molti non gliela perdonano – come se cambiare opinione politica fosse un reato –, non è lui a doverne rispondere. Neppure per quanto riguarda il Nobel, che altri gli invidiano, pur celebrando i non meno grandi che l’hanno rifiutato con sdegno o, notoriamente, ne sono stati esclusi per pregiudizio.
Personalmente, gli sono grato dei giorni trascorsi con il cuore in gola sul tappeto volante dei suoi indimenticabili romanzi, con l’animo angosciato dalle vigliacche violenze subite dai cadetti militari de La città e i cani e dallo sconforto (oggi attuale più che mai) di Conversazione nella cattedrale: in quale momento si è perduto il Perù? E poi della gioiosa eccitazione suscitatami dal sottile erotismo di La zia Giulia e il giovin scrittore, non meno che dall’ironia di Pantaleone e le visitatrici. Indimenticabili i brividi provocati da delitti, sadismi e vendette di un dittatore centroamericano, posti in scena con i dettagli di un verismo da cronaca all’ultimo sangue, in La festa del Chivo. La dittatura, massima umiliazione delle libertà e della dignità umane, evocata per denunciarne l’intima malignità.
Lo ricordo, inoltre, cortese e disponibile in una lunga telefonata da Roma a Londra per concordare un’intervista a Barcellona (in seguito saltata per ragioni di forza maggiore) sui campionati mondiali di calcio del 1982, in Spagna. Da buon sudamericano, di futbol ne sa non meno che di letteratura.
La difficoltà di parlarne scaturisce oggi dall’insostenibile leggerezza con cui Vargas Llosa interviene a gamba tesa nel prossimo ballottaggio elettorale in Perù. Sollecitando appoggi in favore di Keiko Fujimori, figlia dell’ex capo di stato Alberto, in carcere per delitti gravissimi e infamanti (eccidi, traffico d’armi, corruzione), commessi nel corso delle sue presidenze (1990-2000). Lei stessa, incriminata per corruzione e con sulla testa il rischio di una lunga detenzione (la pena massima prevede trent’anni), annuncia che, se eletta, il primo atto della sua presidenza sarà concedere l’indulto al padre.
Ciò nonostante, su El País (del 18 aprile), lo scrittore afferma di temere assai più l’altro candidato, Pedro Castillo, un ambiguo populista con un piede nel rivendicazionismo sociale e l’altro nel conservatorismo incivile. A parere dello scrittore, la fedina penale immacolata non impedirebbe al “maestro di provincia” – come definisce Castillo, maestro e sindacalista dei docenti – di diventare un altro Chávez, quindi un altro Maduro, che trascinerebbe il Perù nel medesimo abisso del Venezuela.
Il Perù è un meraviglioso paese di antica cultura, testimoniata da un’archeologia per dimensione paragonabile in Occidente solo a quella della Roma dei cesari e dei papi; una cultura vivissima, gustosa e fumante ancor oggi nella sua cucina, lussuosa per varietà e sfumature di sapori. Il sapere politico riassunto e aggiornato nel Novecento, le istituzioni nazionali, sono stati però saccheggiati e semidistrutti negli ultimi decenni da sanguinose violenze e diffusa corruzione dei gruppi dirigenti. Il Covid è solo l’ultima delle molte tragedie sfociate in fosse comuni e cimiteri. Lo sviluppo industriale è minimo rispetto alle enormi risorse naturali. Paese scarsamente abitato (trentacinque milioni di residenti), con un territorio (oltre quattro volte quello italiano) che conserva una biodiversità che va dalle fredde coste del Pacifico al torrido ventre dell’Amazzonia, scavalcando i più impervi picchi andini; e con sotto riserve imponenti d’acqua, oro, piombo, argento, petrolio, gas, carbone, zinco…
Conosciamo la voracità dell’economia quantitativa, tutta tonnellate e milioni di dollari, tanto quanto le frequenti debolezze dei governi nel frenarne la tendenza agli eccessi. Basta vedere quanti ne finiscono nei tribunali. A priori, non sembra dunque irragionevole l’intenzione del candidato Castillo di difendere biodiversità, ambiente ed erario pubblico, promettendo una razionalizzazione delle attività estrattive. Per mezzo di una ricontrattazione delle concessioni che rovesci gli attuali criteri di ripartizione dei profitti. Il 70% finora riservato alle grandi compagnie transnazionali dovrebbe passare allo Stato, che lascerebbe loro il restante 30%. Ricapitalizzare il mercato interno per favorirne lo sviluppo è l’obiettivo dichiarato. Sarebbe più che lecito chiedere a Castillo garanzie di trasparenza e certezze giuridiche nei processi di revisione che investiranno anche norme costituzionali, prima di dannarlo all’inferno.
Spaventato dai sondaggi che vedono Keiko dieci punti dietro Castillo – e dalla minaccia di quest’ultimo di non escludere la nazionalizzazione delle imprese che rifiutino di rivedere i contratti, cioè di rinunciare alla maggior parte dei guadagni –, il romanziere peruviano preferisce, sia pure a malincuore, rivolgersi piuttosto alla figlia del dittatore – così lo chiama – che trent’anni fa lo sconfisse alle urne. La vede forse come una scelta in cui è patente il suo disinteresse personale, quindi come un gesto di generosità. Anzi, sarebbe lo sforzo di dimenticare quell’offesa degli elettori peruviani che, da allora, l’ha portato a risiedere definitivamente tra Madrid (ha acquisito anche la cittadinanza spagnola) e Londra. A Keiko – che da anni è ormai fervida praticante dell’autoritarismo asiatico del padre, in parlamento e nelle piazze – chiede di confortarlo nell’idea che, nonostante tutto, rappresenti il “male minore”, garantendo (non si sa poi come) rispetto dell’autorità giudiziaria che la sta processando, e con la speranza che, nell’ansia di modernizzare il paese, non metta mano a un altro colpo di Stato.
Vargas Llosa, poeta dell’etica eroica, ha chiamato ripetutamente Keiko Fujimori “figlia di un dittatore assassino e ladrone, giudicato e condannato a venticinque anni di reclusione da tribunali civili, nell’assoluto rispetto delle norme giuridiche vigenti”. Sconcerta che ora la invochi in quanto presunto “male minore”, malgrado l’incriminazione per corruzione e i sospetti anche peggiori che l’accompagnano. Semplicemente perché il suo competitore elettorale annuncia una politica con tratti ecologisti e nazional-statalisti (e con altri, del resto, di aperta e cieca conservazione). Il tutto in un contesto specifico e mondiale di massima preoccupazione causata dal degrado ambientale, e da una concentrazione oligopolistica della proprietà e dei sistemi di produzione, nel mezzo di una crisi economico-sociale mai vista precedentemente in tempi di pace. Di un giudizio sereno e coerente, dunque, non s’intravede neppure l’ombra.
Addentrandosi nell’agitata penombra dei sentimenti umani, il grande scrittore peruviano ne aveva per lo più evitato i frequenti inganni affidandosi a uno stile narrativo polifonico, in cui i diversi punti di vista avevano ciascuno la propria voce. Come comprendere l’esplicita rigidità ideologica che l’anno scorso l’ha indotto a sottoscrivere un documento della Fondazione internazionale per la libertà (insieme a non poche altre persone più o meno note e autorevoli), in cui, criticando il lockdown con cui si tenta di recintare il Covid, viene respinto “il falso dilemma secondo cui queste circostanze (della pandemia, ndr) obbligano a scegliere tra l’autoritarismo e l’insicurezza, tra l’Orco filantropico e la morte”? Persino di fronte alle stragi che va compiendo il Covid, l’orco non è il virus ma lo Stato, in quanto collettività organizzata. Da Biden a Draghi, a Merkel e a Macron – tutti aspiranti tiranni, se non già tali, in quanto vertici dell’oppressiva piramide statale? Sorge il sospetto di una sindrome che la relativa fragilità di alcune istituzioni latinoamericane rende appena un po’ meno paradossale e, soprattutto, più facile da divulgare nella confusione mondiale di tutti i punti di riferimento politico-ideologici.
Vargas Llosa denuncia ancora una volta un pericolo comunista, che lo abbaglia inducendolo a vedere molto più contagiosi del Covid (e dell’autoritarismo cospirativo e criminogeno dei Fujimori) i boccheggianti regimi di Cuba, Venezuela, Nicaragua e Corea del Nord. Nascondendogli del tutto, però, nientemeno che la Cina, il più ibrido degli unicorni ideologici della nostra epoca. Dimentica infatti di inserirla tra gli orchi in agguato, sempre che non l’abbia rubricata in chissà quale altro universo geo-ideologico. Sembra proprio che il romanziere sappia produrre più delle suggestioni immaginifiche che delle vere e proprie analisi politiche.
Tratto dal blog di Livio Zanotti