Era del tutto prevedibile. Se al governo hai una forza politica che rappresenta gli interessi del Nord del paese (non tutti, ovviamente, ma di quello che si può chiamare il blocco borghese del Nord), è chiaro che ci si trovi poi davanti a un continuo tira e molla e a dover trattare sulle “riaperture”: da quale giorno debbano partire, se a fine aprile o a metà maggio, a che ora si debba andare tutti a letto, se alle 22 o alle 23, e così via. Ma quando, ormai più di un anno fa, ci fu il lockdown nazionale (quello con i severi controlli per le strade, che in seguito non si sarebbero più visti), le regioni in cui i contagi erano quasi nulli dovettero adeguarsi perché – per una scelta governativa del tutto condivisibile – non si potevano lasciare sole le regioni del Nord a sbrigarsela con un’epidemia galoppante. Le differenze territoriali italiane – e il fatto incontrovertibile che il virus avesse cominciato con l’infestare le regioni settentrionali del paese anche per le scelte più o meno sconsiderate che là erano state fatte nei trascorsi decenni, come la delocalizzazione del sistema produttivo con il continuo viavai degli uomini d’affari tra Oriente e Occidente, o, per quanto riguarda la Lombardia, il quasi completo affossamento della sanità pubblica – furono giustamente messe da parte. Il paese dimostrò in quel caso, in barba a tutti i sovranismi strumentali, di avere davvero un “sentimento nazionale”, se si pensa al consenso molto ampio con cui le misure draconiane furono accolte.
Ora la cosa si sta ripetendo, in un certo senso, a parti invertite. Il Nord del paese non vede l’ora di ricominciare a vivere (e lo si può anche capire), mentre le cosiddette zone rosse, al momento, appaiono più probabili nelle regioni del Sud – e in quella povera Sardegna i cui destini dovrebbero far riflettere per l’altalenanza incredibile in cui l’isola è finita, tra aperture e chiusure. In questa situazione altamente complessa, viene presentato dal governo un calendario di “riaperture” che è un “libro dei sogni”, se si pensa a come procede la campagna vaccinale (piuttosto a rilento), e se si pensa, appunto, all’esperienza già fatta dell’aprire per poi dover richiudere.
Questa “fisarmonica” tra aperture e chiusure è d’altronde il portato di ogni epidemia. In un libro di prossima pubblicazione, il nostro Antonio Tricomi, attraverso un viaggio nei testi letterari della modernità, mostra come nel corso dei secoli l’interesse a riaprire o a non chiudere – per non fermare le attività economiche, naturalmente – sia stato sempre uno dei corni di un dilemma incontrollabile. L’attitudine agli affari e al guadagno ha fatto comunque a pugni, nella storia del sistema capitalistico, con la necessità di contrasto delle epidemie. Fin dall’antichità si era compreso che l’unica arma a disposizione per combattere il morbo – peste, colera e simili – era quella del confinamento. Soltanto noi, protervi abitatori del ventunesimo secolo, ce n’eravamo dimenticati, perché sembrava impossibile che almeno qui, in Occidente, potesse scoppiare nuovamente una pandemia devastante. Vero è che, a differenza del passato, disponiamo dei vaccini. Ma questi non sono, di per sé, la soluzione (perché i virus mutano e i vaccini vanno ricalibrati, e soprattutto perché, per un insieme di ragioni, non ce ne sono ancora in quantità sufficiente); la soluzione starebbe piuttosto nella combinazione tra una spedita campagna vaccinale e le pur detestabili misure restrittive.
La Lega, come del resto i suoi colleghi apertamente neopoujadisti dell’opposizione di destra, punta a sostenere le riaperture in chiave elettoralistica. Ciò che è andato in scena ieri – il tentativo di abbreviare di un’ora il “coprifuoco”, con la conseguente astensione dei ministri leghisti e, a quanto pare, con la prima seria arrabbiatura da parte di Draghi – non è qualcosa di occasionale: è l’espressione di una ben radicata “doppiezza” di comportamenti. Il blocco borghese del Nord marca la sua presenza in questa maggioranza e in questo governo al fine di controllare la ripartizione e la destinazione dei fondi europei ma, al tempo stesso, preme per spostare un po’ più avanti l’asticella delle riaperture, anche a rischio di compromettere quella ripresa economica generale che potrà esserci soltanto tra diversi mesi, quando la campagna vaccinale si sarà sviluppata e l’immunizzazione crescente della popolazione avrà drasticamente ridotto i contagi.