Ci sono momenti in cui anche al cronista che voglia mantenere un doveroso distacco professionale è consentito lasciarsi prendere dall’emozione. L’annuncio della sentenza di condanna dell’ex poliziotto Derek Chauvin per la brutale sadica uccisione nel maggio del 2020 di George Floyd, è uno di questi. La giuria ha emesso il suo verdetto e il giudice ha comunicato che entro otto settimane determinerà la pena (che potrebbe arrivare a oltre 40 anni di carcere).
La folla di neri, ma anche molti bianchi, che attendeva da dieci ore il verdetto all’esterno del tribunale è scoppiata in grida di commozione e in lacrime. Nello stesso momento in tutto il paese gli automobilisti hanno suonato i clacson delle auto, la gente è scesa in strada per festeggiare, tutti i più noti esponenti dei diritti civili sono intervenuti. I rappresentanti dell’accusa si sono riuniti in una improvvisata (ed emozionante) conferenza stampa con i familiari della vittima. Molti hanno parlato richiamando le tante ingiustizie subite e le tante battaglie combattute dai neri; poi ha preso la parola uno dei più bravi sostituti procuratore, un avvocato bianco che per 11 giorni aveva demolito con contestazioni puntuali gli argomenti della difesa, che ha dichiarato: “Amo il mio stato (il Minnesota) e la mia città (Minneapolis) e per questo dovremo continuare la battaglia per fare rispettare i diritti civili di tutti, neri e bianchi”.
Dalla Casa Bianca il presidente e la vicepresidente hanno commentato in modo analogo: “Può essere un gigantesco passo per la giustizia in America”, ha detto Biden. “La verità sull’ingiustizia sociale è questa: non è solo un problema per i neri e neppure per la gente di colore, è un problema per tutti gli americani”, ha dichiarato Kamala Harris, visibilmente emozionata. Ancora prima del verdetto, in modo assolutamente inusuale per un presidente in carica, Biden aveva anche detto di “pregare perché la giuria emetta una sentenza giusta.”
L’ansia prima e la gioia poi erano pienamente giustificate. Ogni anno la polizia americana – con il che si intende le polizie dei 50 Stati e delle oltre 3000 contee – uccidono 1000 persone, quante in una guerra a bassa intensità. Di queste meno della metà sono bianchi, nonostante i bianchi costituiscano il 65% della popolazione, e più un terzo sono neri, nonostante i neri rappresentino appena il 12% della popolazione.
Ma le uccisioni di neri hanno un’altra peculiarità: si tratta quasi sempre di persone – per lo più giovani – fermate casualmente o per una infrazione minore da parte di una pattuglia della polizia; sono persone disarmate che non costituivano alcuna minaccia per gli agenti e che ciononostante sono state uccise a colpi di arma da fuoco attraverso il finestrino della macchina mentre prendevano i documenti, mentre scappavano, mentre si avvicinavano con le braccia alzate, mentre infilavano la chiave nella serratura della propria casa; o strangolati quando già giacevano a terra impotenti e ammanettati – come George Floyd.
Di tutte queste migliaia di casi negli ultimi dieci anni solo una manciata sono andati a processo, ma mai per omicidio volontario; tutti gli altri sono stati archiviati dai giudici in istruttoria o insabbiati dai colleghi poliziotti. Qualche condanna c’è stata, per omicidio colposo, a qualche mese di carcere, ma si contano sulle dita di una mano; e qualche altra – a livello federale – per violazione dei diritti civili dell’ucciso: anche in questo caso qualche mese di carcere. (L’omicidio infatti è un reato di competenza statale e il governo federale può solo intervenire per reati federali come la privazione dei diritti civili.)
Otto anni fa era nato il movimento di Black Lives Matter per protestare per l’ennesima uccisione immotivata, questa volta di Trayvon Martin, un ragazzo di 17 anni, ovviamente disarmato, la cui unica colpa era di passeggiare in un quartiere bene (dove viveva) con il cappuccio della felpa abbassato. Ma, nonostante innumerevoli manifestazioni di protesta, prese di posizione di personalità politiche, del mondo dello spettacolo e di gente comune – tra cui, per la prima volta, moltissimi bianchi – niente è cambiato.
Molti dipartimenti di polizia hanno rese obbligatorie le telecamere sulla divisa e sul cruscotto delle auto, hanno emanato linee guida di comportamento in situazioni di crisi per evitare l’uso delle armi; in decine di città grandi e piccole sono stati eletti capi della polizia intenzionati a migliorare i rapporti con la comunità nera, ma è come se i corpi di polizia fossero chiusi in una bolla temporale, insensibili a ogni cambiamento – e gli omicidi di neri inermi sono continuati. Solo mezz’ora prima della sentenza di Minneapolis a Columbus nell’Ohio un poliziotto ha scaricato la sua pistola, uccidendola, su una ragazzina di 15 anni che sembra minacciasse con un coltello due sue amiche nel giardino di casa. Pare che la ragazza fosse mentalmente disturbata, ma non importa: evidentemente i poliziotti di quella e come di tante città d’America sono addestrati prima a sparare e poi a fare domande.
Non si può che rimanere sbalorditi di fronte a tanta indifferenza, quando non anche sadismo, nei confronti di una vita umana da parte di persone la cui funzione primaria dovrebbe essere di proteggerla. C’è indubbiamente un razzismo mascherato, a volte ben visibile, tra molti poliziotti (come anche nell’esercito e nella cultura di destra in generale – non a caso tra gli assalitori del Campidoglio non c’era un solo nero); e c’è un razzismo sistemico, perfino inconsapevole, di discriminazione in larghi strati della società. C’è anche il sadismo e l’odio razziale da parte di alcuni poliziotti, sperabilmente pochi, che mai avrebbero dovuto indossare la divisa. Ma questo non è sufficiente a spiegare la clamorosa incompetenza e impreparazione delle forze di polizia americane, la loro incapacità ad autoregolarsi, nonostante numerosi benintenzionati tentativi seppure a macchia di leopardo.
Il principale problema è che le polizie a carattere generale sono tante, troppe: federali, di Stato, di contea, di città; oltre ai numerosi corpi specializzati: sceriffi, marshals, polizia di frontiera, dei parchi, delle droghe e tabacchi (!), dell’immigrazione… senza che vi sia un comando, o anche solo un indirizzo politico unitario. Così che qualunque direttiva o cambiamento nei metodi prima di arrivare al singolo agente deve passare attraverso una miriade di livelli decisionali diversi e intermedi.
Il secondo problema è il carattere elettivo dei capi delle singole polizie, il che fa sì che, anche se di colore (in pochi ma significativi casi), finiscono per riflettere i desideri e i pregiudizi della comunità che li ha eletti nei confronti delle minoranze – siano essi neri, ispanici, asiatici, nativi americani. Il terzo problema sta nel sistema giudiziario in cui l’azione penale è discrezionale; e poiché anche i procuratori degli stati vengono eletti, cercheranno di non dispiacere al loro elettorato ed eviteranno di incriminare i poliziotti non solo per i casi più gravi di omicidio, ma ancor più per i moltissimi ferimenti e abusi di potere.
In questo contesto disfunzionale, di istituzioni disfunzionali, è difficile che qualcosa possa cambiare a breve nei comportamenti delle forze di polizia americane; tanto più che una parte consistente dell’elettorato repubblicano, seguendo le prese di posizione in materia di Donald Trump, è schierato a favore dei poliziotti qualunque cosa facciano, nella difesa di quella che viene chiamata in gergo “immunità funzionale”, cui anche i tribunali quasi sempre si adeguano.
Intanto la Camera dei rappresentanti ha approvato per la seconda volta una blanda legge di riforma (che comunque si applicherebbe soltanto a livello federale): il George Floyd Justice in Policing Act. La sua approvazione sarebbe un piccolo ma importante passo in avanti, però al momento la legge è ferma al Senato dove presumibilmente rimarrà a lungo perché i senatori repubblicani hanno fatto sapere che mai e poi mai la voteranno.